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Non il solito jazz: Don Karate libera la musica con l’arte di stupire

      Il progetto del batterista Stefano Tamborrino, protagonista in settetto al Bunker per il Torino Jazz Festival, porta in scena un live imprevedibile e fuori dagli schemi, che ha fatto ballare come nei club e sognare come al cinema. Un viaggio tra Firenze, Europa, Stati Uniti e Africa


Libera la musica è il tema scelto per la quindicesima edizione del Torino Jazz Festival: per rappresentare al meglio questo concetto, non poteva esserci scelta migliore che inserire Don Karate nel programma. Il progetto di Stefano Tamborrino, batterista con alle spalle collaborazioni con nomi cult della scena italiana e internazionale come Stefano Bollani, Ares Tavolazzi, David Binney e Louis Cole, è stato protagonista della seconda giornata sul palco del Bunker con un live che ha fatto dell’imprevedibilità la propria cifra stilistica.

Non il solito jazz, ma una musica dalle infinite contaminazioni che, partendo dalla natia Firenze, è riuscita a superare i confini del gener

e portando il pubblico a navigare tra l’Europa, gli Stati Uniti e l’Africa senza farsi mancare rimandi cinematografici, momenti di trasporto emotivo e danze sfrenate da club. Tutto questo movimento è stato imbeccato e imboccato con maestria da un’inconsueta formazione in settetto, composta dal fidato Francesco Ponticelli al basso elettrico e al synth, da Simone Graziano alle tastiere, da Nazareno Caputo al vibrafono, dal doppio flauto traverso di Annarita Cicoria e Rebecca Sammartano (anche seconda voce) e dai visuals di Daniele Biondi.

Stratificato ma comprensibile, complesso ma non complicato, contemporaneo ma vintage: il sound dei Don Karate è partito in modo etereo per poi conquistare rapidamente i sensi dei presenti e gli spazi di una location scelta con grande saggezza, sia per la sua valenza di confine geografico, culturale e sociale, sia per la sua capacità di ospitare eventi fuori dagli schemi tradizionali e dalle etichette preconfezionate. Così, mentre flauti e vibrafono hanno saputo cullarci dolcemente nel mondo del cinema – soprattutto Morricone, ma anche Goblin con un omaggio video al recentemente scomparso Glauco Mauri, attore di Profondo Rosso aggiungendo un tocco progressive di chiara matrice anni ’70: synth, tastiere e una frenetica sezione ritmica hanno infatti alzato i toni dello spettacolo, con ripetuti cambi di ritmo e atmosfera.

Nel live del Bunker nulla è stato lasciato al caso: oltre alla musica, infatti, a farla da padrone sono state anche la presenza scenica e l’estetica, messe in campo giocando sempre sull’orlo dell’imprevedibilità. Hanno fatto parte di questo gran teatro non solo i costumi di scena e le palandrane dai pattern afro, accompagnate da cappelli da esploratore con tanto di veletta a celare nel mistero i volti dei musicisti – che lo stesso Tamborrino ha confessato di aver acquistato in Canada e di aver voluto riprodurre per tutta la band –, ma anche i colpi di scena improvvisi come l’ingresso del tastierista Graziano dal parterre, con tanto di keytar di ottantiana memoria in mano.

Come anticipato, una componente molto suggestiva è stata quella dei visuals: l’apporto della video art di Daniele Biondi, protagonista (in)visibile ma fondamentale e sempre presente della band, ha infatti accompagnato la musica rendendola ancora più complessa e stratificata, pur senza appesantirla. In bilico sulla psichedelia con cinque schermi contemporaneamente (quello centrale, di forma circolare, a riprodurre le vibrazioni della grancassa della batteria), il set ha previsto la proiezione di diverse tipologie di immagini tra cui figure geometriche in movimento, sagome umane danzanti, animali e icone pop americane come Donald Trump (sigh) e Arnold Schwarzenegger.

Inetichettabili, inclassificabili e per certi versi inafferrabili – come nelle intenzioni dichiarate del fondatore e frontman –, Tamborrino e soci hanno liberato la musica (ri)portando al Torino Jazz Festival l’arte di stupire suonando (davvero) tutto dal vivo. Un’arte d’altri tempi che, in un epoca in cui la possibilità di restare fermi a bocca aperta è sempre meno scontata a causa delle sempre più frenetiche necessità indotte dalle incertezze piccole e grandi che dobbiamo affrontare, ha il potere di diventare salvifica. Nell’ora e mezza suonata al Bunker, Don Karate ci ha ricordato dell’importanza di riprenderci il nostro tempo e di essere semplicemente noi stessi. Perché in fondo, come nella strofa citata nell’ultimo pezzo dell’encore, «There is no time to buy or sell, there is no time to make up your mind».

 

foto di Michela Talamucci

Marco Berton

Giornalista non convenzionale: scrivo di diversity per lavoro e di musica per passione. Ossessionato da camicie e maglioni hipster, credo che la normalità non esista e che un altro mondo sia possibile.

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