Never Enough, il quarto album della band di Baltimora, è uno sguardo sul futuro dell’hardcore come attitudine, un invito a pensare oltre al suono e a ragionare sulle infinite strade che il punk ha davanti a sé
Il 27 ottobre 1998 il gruppo hardcore svedese Refused pubblicò il terzo album, che segnò anche la fine del progetto, prima della reunion avvenuta quasi vent’anni dopo. Con l’emblematico titolo The Shape of Punk to Come, la band si pose l’obiettivo di provocare, presentandosi e presentando un’idea di punk futuribile, esteticamente più ampia di quanto visto nei vent’anni precedenti. Mantenendo la sua carica distruttiva – ovvero ponendo il punk come una scheggia impazzita nel sistema musicale –, i Refused lo collocarono anche in territori apparentemente agli antipodi, dove l’attitudine punk potesse coniugarsi con strade alternative e inedite, in cui elettronica e breakdown coesistono. Era quanto, circa dieci anni prima, i Fugazi avevano iniziato a battezzare post-hardcore: una pratica che si slegava da una scena autoreferenziale, machista ed elitaria, ma che custodiva le radici autoproduttive della cultura do it yourself.
Il percorso dei Turnstile ricorda da vicino quello di queste band. Anche il gruppo di Baltimora proviene da contesti tipici della scena, con musicisti e musiciste attivi in molteplici formazioni intrecciate tra loro (nello specifico Angel Du$t e Trapped Under Ice). I Turnstile hanno inoltre sempre sostenuto cause sociali legate al proprio territorio: l’ultima è stata un concerto gratuito, privo di transenne e backstage, organizzato per raccogliere fondi da destinare alla comunità di persone senza fissa dimora della loro città. In oltre quindici anni di carriera, la band ha saputo evolvere gradualmente il proprio suono: dal classico New York style hardcore a una formula che lo ibrida con ritmi latini, dream pop e shoegaze. Album dopo album, Brendan Yates, Pat McCrory, Franz Lyons, Daniel Fang, Brady Elbert (fino al 2022) e Meg Mills (dal 2023) hanno continuato ad assorbire influenze e ad allargare il proprio orizzonte, mantenendo però l’hardcore come radice attitudinale da cui partire e a cui ritornare.
A segnare uno spartiacque, portando i Turnstile all’attenzione di un pubblico più ampio, è stato il terzo album Glow On. I suoni del disco offrivano uno sguardo fresco, nuovo e inclusivo sull’hardcore, pur conservandone l’attitudine. È per questo che l’attesa per il lavoro successivo era tanto forte quanto diffusa. A quattro anni di distanza, il 6 giugno 2025 è uscito Never Enough, seguito e insieme contraltare di quell’album che li aveva consacrati come voce di una nuova generazione di hardcore kids. Questo doppio valore si coglie fin dalla copertina, che prosegue e contrasta quella precedente: laddove in Glow On dominava un cielo rosato e nuvoloso, in Never Enough l’azzurro limpido dell’orizzonte è appena solcato da due arcobaleni. Anche visivamente si ha quindi l’impressione di un ritorno e di un seguito, ma anche di una nuova prospettiva, un’altra porzione dello stesso cielo.
La sensazione di un’estensione del familiare – e dunque di apertura verso nuove visioni – è chiara fin dalle prime note. La voce di Yates si fa ancora più rarefatta e distante, i momenti ambient diventano più densi e descrivono con precisione un senso di incorporeo e intangibile. Il suono duro dei Turnstile rimane, con riff taglienti e beat di batteria che chiamano il mosh pit, ma viene portata avanti una ricerca che trasforma l’hardcore in una bussola: non più un recinto stilistico, ma un’intenzione, un codice, una modalità espressiva. Il già citato dream pop, che tingeva alcuni brani di Glow On, qui esplode: troviamo momenti strumentali quasi interamente elettronici, composti da partiture di piano e batterie sintetiche, che culminano nel breakbeat dell’intensa Look Out for Me.
Anche sul piano lirico Never Enough prosegue il percorso tracciato dalla band e lo porta a un nuovo livello. Tornano temi di solidarietà, fratellanza e fragilità in testi essenziali e scheletrici, che non vogliono descrivere le sensazioni, ma suggerirle attraverso metafore evocative. È il caso della evanescente ma potentissima Birds, che collega il volo migratorio degli uccelli al bisogno delle nuove generazioni di librarsi e liberarsi, in modo autonomo ma consapevole del contesto di provenienza. Parole e suoni si fondono, portando avanti una visione – etica ed estetica – fatta di collaborazione, amore e costanza.
Questi temi si riflettono anche negli aspetti collaterali all’album. I concerti ad esempio, come quello al Primavera Sound tenuto a tarda notte che è stato il più coinvolgente e intenso dell’intero festival. Ma anche la parte visiva ha un ruolo centrale: come già accaduto per alcuni brani di Glow On, i Turnstile hanno deciso di accompagnare Never Enough con un film. Diretto da Yates e McCrory, il progetto audiovisivo offre una chiave di lettura ulteriore del disco, rendendone ancora più evidenti le intenzioni. Sessioni in studio, performance tra le valli del Maryland e scene di vita urbana a Baltimora costruiscono un racconto visivo strettamente legato ai suoni e alle parole, creando un insieme potente e difficilmente scindibile. La scelta di realizzare un supporto filmico si rivela coerente, e testimonia quanto la band tenga alla propria immagine come estensione del suono – il tutto in un’ottica che richiama fortemente la cultura do it yourself da cui l’hardcore stesso trae linfa –.
In definitiva, Never Enough è la conferma di una visione: il culmine – almeno per ora – di un percorso coerente, che ha utilizzato l’hardcore come motore morale per costruire qualcosa di nuovo e inclusivo. I Turnstile si fanno portabandiera di una nuova fase del genere, della scena e della subcultura, proponendoci un possibile futuro senza imporlo. Un disco che, come fu per Fugazi e Refused, potrebbe aprire una nuova stagione.