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Moonchild: il magico viaggio nell’occulto con Le Astronavi

svg18 December 2024RiverberiStorieMarco Nassisi

Con un concept album in grado di mescolare con intelligenza punk, ska e cantautorato, Moonchild – terzo album de Le Astronavi, uscito per Pioggia Rossa Dischi – è un viaggio sonoro e visuale libero da ogni convenzione, che gioca con l’esoterico e coinvolge dal primo all’ultimo brano


Le Astronavi sono un progetto musicale nato a Genova nel 2016 dall’unione artistica tra il cantautore Gianmaria Rocchi e la videomaker Stefania Carbonara: da una parte la musica, dall’altra le immagini in movimento; motivo per cui viene spontaneo definirli un progetto musicale, più che semplicemente una band. Si tratta di una creatura che nel corso degli anni ha avuto modo di evolversi. Partiti proprio come un duo volto a unire la musica di Gianmaria con le visual di Stefania, nel 2017 esce il primo album 16 maggio, nel 2020 il secondo Barren.

Oggi, a fine 2024, arriva quello che è sicuramente il disco più ambizioso di tutti. L’aggiunta all’organico di una serie di musicisti, ovvero Enea Castellini e Francesco Cassissa (chitarre), Cristina Clelia Cambiganu (basso), Matteo Brunato (batteria), Dino Di Marco (sax) e Federica Italia (seconda voce), ha permesso a Le Astronavi di dare maggiore colore al proprio sound e svilupparlo in una serie di canzoni che, messe insieme, hanno dato vita a quello che per ora è il loro ultimo lavoro in studio: Moonchild.

Per dare un’idea di cosa sia un album come Moonchild e quali siano le particolarità dietro il suo concept è necessario parlare di un’altra figura all’interno dell’entourage, Kiki, descritta come l’agitatrice occulta: fondamentalmente, colei che durante il live incita il pubblico e gira sul palco e tra la folla a diffondere la vena più teatrale della band. Moonchild si pone infatti l’obiettivo di raccontare una storia; non a caso ho parlato di concept. Ma che storia?

L’album prende il nome da un romanzo di Aleister Crowley, considerato il fondatore del moderno occultismo, al quale, nel 1946, l’ingegnere missilistico Jack Parsons si ispirò per un’operazione detta Babalon working, con l’obbiettivo di evocare la cosiddetta “figlia magica” in possesso delle qualità per cambiare il mondo e liberarlo da ogni dogma e restrizione del tempo. Il confine tra realtà e immaginazione è labile, ed è proprio questa la forza della storia che Le Astronavi raccontano in 9 brani, riportando alla luce – come direbbero loro stessi – “storie sfuggite al controllo della Storia”.

In un album come Moonchild, difficilmente categorizzabile in un genere specifico, regna l’attitudine punk e l’amore per il cantautorato. Il primo è diretta conseguenza del background di Gianmaria Rocchi, il secondo si riflette nella volontà di narrare una serie di vicende in musica, servendosi anche e soprattutto delle parole, come da tradizione non a caso proprio della scuola di Genova. L’album è come un libro e ogni brano è un capitolo. Ma non si tratta di un viaggio esclusivamente sonoro e canoro: è anche visuale, curato interamente da Stefania Carbonara, i cui videoclip dai colori sgargianti e dalle inquadrature frenetiche sono uno strumento in più per il coinvolgimento all’interno di una storia che suggerisce continui easter eggs sia in musica che in video. È un tipo di videoclip che si ispira ai film sperimentali del regista underground Kenneth Anger, il quale avrebbe poi scritto il famoso Hollywood Babylon, oggetto del terzo brano del disco Hollywood Lucifer.

Con continui riferimenti più o meno espliciti alla cultura legata all’occultismo – con una particolare attenzione alla dottrina di Thelema, elaborata dallo stesso Crowley –, molti dei brani sono permeati da uno strato di satira sociale che, partendo dalle stesse controversie legate al culto, arrivano a toccare il presente, dalla opening Babalon alla ballad Fondiamo una setta, i cui testi sono di grandissima e necessaria attualità.

Ogni brano è espressione di un mood definito non solo dai toni del racconto, ma anche ovviamente dal genere musicale. Motivo per cui è difficile etichettare un disco come Moonchild nella sua interezza; un compito che, forse, diviene più semplice se si considerano singolarmente i pezzi che lo compongono. Infatti, si riconosce il punk più classico di Magia del popolo, brano che subito ribalta il mood e lo stile della canzone precedente, La Ballata di Jack Parsons, caratterizzata da una drum machine mescolata a uno spiccato gusto per la melodia. Allo stesso modo si può notare l’influenza big beat di Hyper Chaos, in netta contrapposizione con le tinte ska di un brano propriamente rock and roll come Candy.

Alla fine, generi a parte, la band ha una personalità artistica assolutamente riconoscibile. Il fatto di spaziare da uno stile all’altro non impedisce all’album di possedere un’unicità che fa venire voglia di ascoltarlo tutto dall’inizio alla fine, immergendoci nella storia e nelle sue magiche atmosfere.

Marco Nassisi

Per me scrivere di musica vuol dire trovare una scusa per ascoltarne tanta, scoprirne di nuova e fare un po' d'ordine nella testa.

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