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Le Schegge di Giorgio Poi sanno fare male a noi, anime fragili

A quattro anni dal suo ultimo lavoro, Giorgio Poi finalmente ritorna con un nuovo album: Schegge, uscito ieri per Bomba Dischi. L’atteso ritorno del cantautore di Tubature e Vinavil non stupisce con particolari effetti speciali, ma lo conferma al vertice della musica italiana grazie alla qualità artistica e alla capacità di esplorare a fondo i nostri modi di essere e le nostre deboli relazioni esplosive 


In un mondo dove i venti di guerra incombono da ogni dove, dove a governare le nostre emozioni sono soprattutto gli algoritmi e l’intelligenza artificiale sta prendendo il sopravvento su ogni aspetto della vita umana – arte compresa –, a vacillare maggiormente sono i nostri modi di essere e le nostre già deboli relazioni. E in Italia non esiste artista musicale più bravo di Giorgio Poi a cogliere questi aspetti: il cantautore di Tubature e Vinavil è finalmente tornato con l’atteso quarto album, Schegge – uscito lo scorso 2 maggio per Bomba Dischi –, confermando la sua innata capacità nell’esplorare a fondo le piccole e grandi tribolazioni delle nostre quotidianità.

In questo scenario esplosivo – ripercorrendo le orme già tracciate con il precedente Gommapiuma, ma amplificandone la portata – le Schegge di Giorgio Poi sanno far male a noi, anime fragili che vagano senza meta apparente per case, strade, uffici, concerti e teatri alla ricerca di un tanto sospirato quanto temuto (e temibile) equilibrio, sentimentale ma non solo. Schegge che sono frammenti di vita scritti e cantati con la consueta e ironica delicatezza, fatta di sottili allusioni, giochi di parole e surreali nonsense; e suonati (tutti da lui) con una altrettanto consueta e maniacale precisione. A dare ulteriore valore a una produzione molto accurata ci ha pensato la consolidata collaborazione con il chitarrista dei Phoenix Laurent Brancowitz, stella francese del firmamento pop rock europeo.

Schegge gioca sul sottile filo della nostalgia, mescolando con astuzia i synth e le chitarre alla caratteristica voce del suo autore, per scattare con voluta approssimazione una serie di Polaroid sbiadite su cui ognuno e ognuna di noi potrebbe scarabocchiare la propria vita con le (poche) certezze che possiede, i propri sogni e le proprie illusioni. Come in una commedia dolceamara dal sapore tipicamente italiano, tra ballad malinconiche e spinte più visionarie, i nove brani che compongono la track list fanno parte di un unico grande punto di vista sulla realtà di tutti e tutte noi, stando benissimo anche da soli come tessere di un puzzle da scomporre e ricomporre a proprio piacimento, in base alle emozioni del momento.

Quanto appena descritto è testualmente e musicalmente rappresentato alla perfezione da Giochi di gambe, singolo d’apertura che rievoca quell’eterno oscillare tra la fuga e la partecipazione, perché «Non voglio niente di speciale, non voglio niente da rincorrere o evitare». In questo oceano di dubbi, l’acqua è invece uno dei temi ricorrenti e rassicuranti di Schegge, che sia quella agitata del mare dove cercare salvezza con un salvagente o quella Nelle tue piscine – titolo della seconda traccia – dove «si può solo annegare».

L’epica del surrealismo in salsa Poi emerge prepotentemente nel successivo singolone, Uomini contro insetti – titolo estratto da Elogio dell’ozio di Bertrand Russell – dove, tra note sospese che ricordano in qualche modo le celeberrime colonne sonore firmate da Riz Ortolani, ci si prende amabilmente gioco di temi come turismo, religione e ambiente, messi irrimediabilmente a repentaglio da un’umanità distruttiva che lancia «bombe nucleari sugli alveari».

Se queste sono le prospettive, anche l’amore non può esimersi dal giocare un ruolo da primattore: non l’amore da copertina, chiaramente, ma quello che all’alternarsi di passione e tensione sa intromettersi come elemento scatenante di conflitti ed euforia, interiore ed esteriore. Il tema è affrontato con cura nelle successive Non c’è vita sopra i 3000 kelvin («Riconoscersi come due intrusi in un mondo d’altri / Farsi brillare come petardi») e Les jeux sont faits («Ci siamo spenti davvero io e te / E adesso siamo cenere»).

Una menzione particolare la merita, come già accaduto in Fa niente, Smog e Gommapiuma, la title track strumentale inserita in mezzo al disco, simile a uno degli intervalli televisivi Rai di antica memoria, che tanti ricordi ci fanno tornare: anche in questo caso, si tratta di un altro piccolo capolavoro musicale da ascoltare immersi nei propri pensieri, nella solitudine della propria camera o nella brulicante frenesia delle nostre città. Schegge sfuma in atmosfere più riflessive, nell’inquietudine del vivere riprendendo quasi tutti i temi già trattati, con gli ultimi tre pezzi dell’album: Tutta la terra finisce in mare, Un aggettivo, un verbo e una parola e Dalle barche e i transatlantici.

In Italia abbiamo il grande difetto di voler pretendere sempre e comunque troppo dai nostri artisti di punta, specialmente quando si tratta di una nuova uscita discografica. Senza la pretesa di voler rivoluzionare il mondo musicale con particolari effetti speciali, con Schegge, Giorgio Poi si conferma ai vertici della musica d’autore italiana, viaggiando a pieno regime creativo e stilistico sugli standard a cui ci ha già ben abituato con i precedenti lavori. Del resto, non è certo un’eresia affermare che Giorgio Poi ha cambiato il cantautorato italiano come solo pochi altri grandi artisti – vedasi Baustelle – hanno saputo fare.

Marco Berton

Giornalista non convenzionale: scrivo di diversity per lavoro e di musica per passione. Ossessionato da camicie e maglioni hipster, credo che la normalità non esista e che un altro mondo sia possibile.

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