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Le periferie non sono mai state così divertenti: arrivano i Welly!

La cura al pop gentrificato ha la faccia di cinque giovanissimi sbarbatelli inglesi e l’abito dell’indie rock più scintillante: con il concept album d’esordio Big in the suburbs, la band vuole scalare le gerarchie


Sarà quella copertina che ricorda il celeberrimo e nostalgico Tutto Città (chi è nato prima degli anni ’90 capirà), saranno quelle facce da giovanissimi sbarbatelli inglesi al confine tra il nerd e il brat, sarà la sfacciataggine nell’amalgamare molto di ciò che di buono ha prodotto la Gran Bretagna musicale negli ultimi 50 anni, ma è impossibile non amare i Welly!

«Il pop si è gentrificato e noi siamo la cura»: basterebbe la definizione che i Welly danno di se stessi per stabilire un contatto emotivo con loro. La cosa è particolarmente vera soprattutto se sei nato, cresciuto o trapiantato in una periferia urbana, sociale o culturale: ed è proprio a questa grande umanità spesso dimenticata, ma soprattutto incompresa e bistrattata, che si rivolge Big in the suburbs, il disco di debutto della band uscito venerdì 21 marzo per l’etichetta Vertex Music.

A dipingere con ironia e la giusta dose di disincanto pezzi significativi di periferie inglesi, popolate da personaggi talmente ordinari da risultare tremendamente interessanti, è il frontman, autore e produttore Elliot “Welly” Hall, da cui la band prende il nome. A supportarlo i compagni di avventure Jacob Whitear (basso e cori), Matt Gleeson (chitarra e cori), Joe Holden-Brown (chitarra e cori) e Hanna Witkamp (tastiere, drum machine e cori); attivi dal 2021, i Welly hanno già all’attivo diversi singoli, il primo dei quali è stato Me and your mates.

Il disco si apre con la title track, che potremmo definire un vero e proprio biglietto da visita dei Welly: Big in the suburbs, infatti, parla della smania di evadere dalla vita e dai paesaggi monotoni delle già citate periferie («No more nights as a suburbanite / I want my name in streetlights / I’m big in the suburbs»). Si prosegue sulla stessa lunghezza d’onda con Home for the weekend, racconto di un ritorno a casa dalla città per rivedere amici e parenti («I’m coming home for the long weekend and I am / Off to see all of my old friends / Same pub with the same old pints / Oh how I miss my suburban life») e con Knock and run.

Ritmi e divertimento decisamente alti anche con le successive Deere John, presa in giro di un impiegato medio e della sua vita («Nice man in a half-nice suit / One wife, two flings, still nothing to lose / He mows the lawn») e Soak up the culture, descrizione irriverente delle avventure dei giovani inglesi durante le vacanze all’estero («British Boys leave British soil to find their fears / Apart from skiing they haven’t been abroad in years / Ciao Bella! thеy say / Yeah yeah, ciao Bella, I’m such a nicе fella!»).

Uno dei passaggi più significativi di Big in the suburbs, sia a livello musicale che testuale, è sicuramente quello di Shopping, dove a essere presa di mira è la mercificazione selvaggia del Regno Unito rappresentata da centri commerciali stracolmi di gente pronta a riempire borsate di fast fashion e carrelli di cibo spazzatura («My pockets must have holes / ‘Cause I don’t know where it all goеs / We go out shopping»). Ugualmente degna di nota anche la successiva Cul-de-sac.

A metà track list, l’album sterza improvvisamente verso suoni più soft, segnati dalla sincopata Pampas grass, dalle atmosfere funky di The roundabout racehorse, dall’acustica e parlata Under milk wood e dalla insolitamente malinconica pop ballad Family photos. I ritmi accelerano nuovamente con Country Cousins e It’s not like this in France, prima del gran finale Life is a motorway, da cantare in coro a squarciagola, magari su una spiaggia di Brighton.

Se siete degli appassionati del tipico (e affascinante, aggiungiamo noi) disagio delle periferie inglesi e di tutto il loro bagaglio subculturale, Big in the suburbs è sicuramente il disco che che fa per voi. Un concept album d’esordio coraggioso e definito che, nonostante l’insolita lunghezza per il genere, risulta ben distribuito, dove non mancano spunti di riflessione, schitarrate accattivanti e momenti danzerecci. Con questi presupposti, i Welly hanno tutte le carte in regola per scalare le gerarchie e  ridarci speranza nell’indie pop: perché noi siamo contro la gentrificazione, vero?

Marco Berton

Giornalista non convenzionale: scrivo di diversity per lavoro e di musica per passione. Ossessionato da camicie e maglioni hipster, credo che la normalità non esista e che un altro mondo sia possibile.

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