Lotus di Little Simz è un viaggio tra dolore, rinascita e sperimentazione sonora. Come il fiore da cui prende il nome, l’album emerge dal fango della delusione e della rottura, per sbocciare in una corona di emozioni, collaborazioni e generi diversi. Un’opera necessaria che racconta la complessità di un’artista in continua trasformazione, capace di unire afrobeat, jazz, punk e soul in un’espressione autentica e personale
Il loto. Quel fiore dai colori delicatissimi – bianco screziato di rosa – che emerge fiero dai luoghi più sordidi, dal fango, dalle acque stagnanti, immacolato perché nulla l’ha sfiorato. O perché è riuscito a scrollarsi tutto di dosso. Questo è il concept dietro Lotus, il sesto album di Little Simz – al secolo Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo – artista nata e cresciuta in North London, a Highbury, con i versi di Lauryn Hill e le coreografie tarantolate di Missy Elliott.
Musicista, attrice e cantante, Simz non è un’artista di facile inquadramento: definita nientemeno che da Kendrick Lamar «una delle migliori rapper del momento», Simz ad ogni album cambia pelle, proponendo ogni volta un diverso frammento di sé, uno sguardo nuovo sulla sua interiorità e sui diversi percorsi del dolore e della rinascita. Lotus è stato per Simz un album necessario perché parla di rotture e ricomposizioni: la rottura è quella dolorosa con l’amico d’infanzia e collega Inflo, che ha prodotto gli ultimi tre album di Simz e che l’artista ha recentemente citato in giudizio a seguito del mancato pagamento di un debito che ammonterebbe alla cifra stellare di 2 milioni di dollari. Simz non va per il sottile, lo capiamo subito dal pezzo di apertura (Thief) dedicato – si fa per dire – appunto all’ex-amico Inflo: con questo brano, innervato da percussioni UK garage su una struttura cruda di punk-rap, l’artista ci dice immediatamente che l’album è personale ed è anche urgente, ha bisogno di riprendersi dalle bugie e dai sogni che lui le ha venduto, ma soprattutto ha bisogno di perdonare sé stessa – e non lui – per guarire.
Questo pezzo apre un inanellarsi di petali: il fiore del loto si schiude rivelando un approccio artistico estremamente variegato e interessante, rappresentato dalle diverse collaborazioni che connotano il taglio volutamente sperimentale di Simz. L’artista aveva di recente manifestato dubbi e profondo disincanto verso il mondo musicale, al punto da aver concepito Lotus come il suo ultimo album e – proprio per questo – immaginandolo senza confini, audace, in grado di spaziare tra diversi generi. Incoraggiata e sostenuta dal producer Miles James Clinton, Simz ha quindi messo in piedi diverse collaborazioni interessanti, come quella con il batterista jazz Yussef Dayes (Lotus) e con Yukimi Nagano, dei Little Dragons (Enough). In questo disco Simz ripercorre i suoni della sua vita, dall’afrobeat che – come ha dichiarato lei stessa – suonava senza sosta a casa con i suoi genitori, entrambi nigeriani, al punk di North London, passando per la caldissima bossa nova di Only.
Una delle collaborazioni più interessanti è sicuramente quella con Obongjayar, già presente in Point and Kill – pezzo ultra succulento del premiatissimo Sometimes I Might Be Introvert, dove volenti o nolenti il riff di basso vi si scalpella in testa -: in Flood il soul dell’artista nigeriano smussa il flow violento di Simz, mescolandosi al bridge quasi satanico di Moonchild Sanelly. Flood è un canto bellico e tribale, una guerra interiore ed esteriore combattuta nel fango, uno dei passaggi sicuramente più densi dell’album, sostenuto da un video afro-gothic con un bianco e nero cupo. Il disco alterna pezzi estremamente carnosi e violenti – come i già citati Flood e Thief – a momenti più esplicitamente leggeri, fino a scivolare in sezioni quasi impalpabili: sono queste ultime che rendono l’ascolto ancora più sorprendente perché l’ascoltatore, ancora sopraffatto dalla spinta percussiva iniziale, si imbatte in pezzi trasparenti e incorporei come Peace – personalmente, il mio preferito –. Qui, accompagnata da Moses Sumney e Miraa May, Simz scrive una lettera d’amore alla sé stessa sedicenne che, fradicia sotto la pioggia londinese, macinava chilometri a piedi solo per andare a registrare: a quella ragazza, quella «electric Black girl» (Enough), Simz promette che nulla mai potrà oscurare la sua luce e lo fa nella vellutatissima Lotus, accompagnata dall’inconfondibile voce di Michael Kiwanuka. Slida dolcemente, «Come rugiada su un fiore, osservo l’alba».
Menzione speciale per Young, pezzo che mi ha richiesto due ascolti – ma forse anche tre o quattro – per convincermi, ma che alla fine, riflettendoci, si inserisce perfettamente nell’idea dell’I did it my way che sta dietro l’album: un divertissement che si gioca tutto su un basso asciuttissimo su cui l’artista innesta una trama di percussioni e un accento brit sgangherato che fa il paio con una Simz macchiettistica e vagamente André 3000 protagonista del video.
Pur non essendo un album dichiaratamente afrofuturista, è possibile vedere in Lotus alcuni degli elementi distintivi di quella cultura che ha caratterizzato forse in maniera più marcata altri album della stessa artista: pensiamo, in particolare, ai concetti di rinascita e spiritualità – comuni nell’afrofuturismo – presentati con un linguaggio sonoro estremamente variegato, che riflette l’eclettismo tipico di questa corrente. Questi aspetti sono esplorati in maniera sicuramente più significativa in altri album, in particolare Grey Area, ma anche e soprattutto Sometimes I Might Be Introvert, dove l’uso della voce narrante femminile onnisciente e i temi di trasformazione personale e riscatto ricordano gli approcci narrativi afrofuturisti di autrici come Octavia Butler; l’estetica visiva di alcuni video, inoltre, richiama le radici africane dell’artista in chiave contemporanea. Basti pensare alla già menzionata Point and Kill.
Si tratta complessivamente di un album discontinuo. Non c’è una narrazione lineare, ma un continuo – e spiazzante – rollercoaster di emozioni. Indubbiamente a fine ascolto se ne percepisce il senso globale, ma si rimane con la sensazione di un quadro variegato a cui manca un po’ di solidità. Ci sono picchi di altissima qualità – Lotus, Flood, Peace e Blue –, collaborazioni più (Obongjayar) e meno (Yukimi, Wretch 32, Cashh) riuscite, pezzi che divertono senza farsi ricordare (Young) e pezzi che fanno innamorare, proiettandoti in un love thriller anni ’40 (Hollow) o in un fluido di luminosa bossa nova.
Consapevole di questa opinione poco popolare, mi mancano il barocco di Sometimes I Might Be Introvert, gli arrangiamenti magniloquenti e la sua compatezza; per me Lotus è yes, but.