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La guerra degli Antò e il complesso rapporto tra punk e provincia

svg15 April 2025CocciStorieBrando Ratti

Nel 1999 usciva nelle sale italiane un film che, per certi versi, ha rappresentato perfettamente uno spaccato della società italiana: La Guerra degli Antò. Questa pellicola, diretta da Riccardo Milani e tratta dall’omonimo – e ormai introvabile – romanzo di Silvia Ballestra, racconta la vita di quattro giovani punk abruzzesi in perenne conflitto con il luogo che li ha partoriti e che li vorrebbe vedere incatenati alla linee di qualche fabbrica o, con un pizzico di fortuna, incamiciati in qualche ufficio ad aspettare il venerdì sera


A chiunque non abbia ancora conosciuto la storia dei quattro Antò di Montesilvano, un solo monito iniziale: non aspettatevi le tipiche scene dei film anglosassoni a tema punk in cui quattordicenni strafatti di colla e alcol passano le giornate a pestarsi con la gang rivale; nemmeno la rappresentazione di un punk violento e nichilista come quello di SLC Punk. La guerra combattuta dagli Antò è una guerra a bassa intensità che ricorda molto quella combattuta nelle trincee tra il 1914 e il 1918: una guerra fatta di noia, apatia, noia, delusioni, ancora noia e una spietata attesa di qualcosa che dovrebbe arrivare ma che, forse, non arriverà mai.

Gli Antò, infatti, sono quattro ragazzi abbastanza sfigati che hanno deciso di abbracciare il punk per sfuggire dalla mentalità che governa il classico paesino della provincia italiana. La loro estetica ne è la prima vera e reale testimone: i quattro non indossano le solite magliette delle band che ascoltano, non hanno abbracciato uno stile preciso e, soprattutto, sembrano non interessarsi minimamente a tutto quello che riguarda la cultura punk. Il punk per loro è intrufolarsi di nascosto in una delle numerose camere da letto dell’ingegnere Treves, potente speculatore edile della zona, e pisciargli sopra il materasso; poco importa se, nel farlo, non si indossa un chiodo borchiato ma, al contrario, un orribile giubbotto in pelle da motociclista recuperato in qualche mercato rionale.

Anche la colonna sonora del film, del resto, sembra dello stesso avviso: tra le musiche che accompagnano la visione troviamo infatti solo due pezzi dei Dead Kennedy’s, Fleshdunce e One Way Ticket to Pluto, in mezzo a brani swing, canzoni dei Maestri Pino Daniele (Je So Pazz) e Franco Battiato (La Stagione dell’amore) e persino Zajdi Zajdi, un canto popolare macedone che uno degli Antò intona per non farsi massacrare di botte da una famiglia di giostrai, sicuramente più integrati nella società rispetto al gruppo di giovani punks.

Ma allora, perché un film che parla di punk senza realmente interessarsi al punk dovrebbe essere interessante per chi è appassionato di questo genere? Perché, semplicemente, la storia degli Antò è la storia di chiunque abbia approcciato questa cultura da una prospettiva provinciale. C’è la voglia di andarsene da «quel buco del culo del mondo» rappresentato dalla realtà di paese e, allo stesso tempo, da quell’attaccamento viscerale al proprio nido di appartenenza di cui, volenti o nolenti, si conoscono tutte le dinamiche e i meccanismi. C’è la difficoltà nel rapportarsi con l’esterno, c’è quella perenne sensazione di non essere mai all’altezza delle situazioni e c’è quella disillusione continua dovuta alla consapevolezza che, per quanto si possa fuggire, non si starà mai bene da nessuna parte se prima non si impara a stare bene con se stessi.

Ma soprattutto, nella storia dei ragazzi di Montesilvano, il punk rappresenta una vera e propria ancora di salvataggio per pensare con la propria testa e fuori dagli schemi costituiti. La stessa rappresentazione della provincia che, in assenza dei “vecchi” da imitare, ti porta ad ascoltare contemporaneamente i Crass e i Cockney Rejects, sbattendotene di quelle beghe tra stili che riguardano i contesti metropolitani.

Perché quando cresci aspettando lunghe settimane per ricevere la copia di un disco degli UK Subs ordinato al Number One, tra gli sguardi straniti e sospettosi dei commessi nei negozi di dischi quando nomini gli Angelic Upstarts, il fatto che tu vesta un bomber o un chiodo di pelle conta poco. Quello che conta davvero sono le ore passate in cameretta ad ascoltare i dischi fino allo sfinimento, cercando di tradurre qualche parola per sentirti parte di un mondo che, ogni volta, ti sembra sempre irraggiungibile.

Nel 2014, 15 anni dopo La Guerra degli Antò, il regista serbo Ognjen Glavonic fece uscire un bellissimo docu-film, Zivan Makes a Punk Festival (disponibile su MUBI), il cui protagonista, Zivan, è un punk che assomiglia al classico fan di Vasco Rossi di metà anni duemila, che prova ad organizzare un festival punk in un ruralissimo paesino alle porte di Belgrado. Anche in questo caso, l’apatia provinciale la fa da padrona: tra mille imprevisti, dubbi e disorganizzazioni, il nostro Zivan porterà a casa il suo festival senza però uscirne vincitore, perché costantemente schiacciato dalla realtà a cui ha scelto di rimanere incatenato.

A distanza di anni e, con solo due piccoli esempi, il complesso rapporto tra il punk e la realtà provinciale è ancora descritto, analizzato e narrato. E allora, perché si continuano a spendere soldi e fatica per raccontare di scene minuscole sparse in qualche angolo remoto del mondo, idealizzate e in perenne conflitto contro dei mulini a vento? Forse, perché continuare a omaggiare queste schegge impazzite che, nonostante tutto, ci provano ancora ci fa sentire un po’ più sicuri. Più sicuri del fatto che, forse, bastano ancora quattro accordi suonati male per farci sentire parte di un cambiamento. E che in fondo, nel nostro piccolo, qualcosa per trasformare questo mondo possiamo ancora farlo.

Brando Ratti

Classe 1990, nasco e cresco a Massa, patria della Farmoplant ma anche dei genitori di Piero Pelù. Dottorando, ho un certo feticismo per le sottoculture, la musica underground, i filosofi presi male, i videogiochi presi bene, i film brutti e i libri belli. Nonostante il cognome, ho paura dei topi.

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