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Intervista ad Amalfitano: un disco “nato all’inferno”, con tanta voglia di vita

Canzoni che traboccano di amore e di vita, composte nel periodo più buio di tutti. Gabriele Amalfitano ha pronto un nuovo album, il suo secondo da solista. Il cantautore romano, già voce dei Joe Victor, sta svelando i nuovi pezzi in anteprima dal vivo. In occasione del concerto alle OGR Torino – condiviso con gli Animaux Formidables – abbiamo fatto una chiacchierata con lui, parlando di musica, passioni, città e dell’album che uscirà il 22 marzo, prodotto da Francesco Bianconi dei Baustelle e Ivan Rossi


Com’è stato lavorare con Bianconi? 

Speravo ci fosse nell’album, e c’è stato. Sono sempre stato un suo fan. Ho potuto conoscerlo con un contatto tramite la Sugar, la mia passata etichetta, quando ho portato dei provini. Appena ci siamo conosciuti, ci siamo subito piaciuti. Quando poi sono uscito dall’etichetta, l’ho chiamato e gli ho chiesto se voleva continuare a lavorare, indipendentemente dalla Sugar, e lui ha risposto di sì, perché le canzoni gli erano piaciute parecchio. Ha prodotto il disco e ha cantato anche in due singoli, Fosforo e Tenerezza. Ci siamo trovati bene anche personalmente…

Trovarsi bene personalmente con un artista che ascolti da sempre, comunque, non è così scontato.

Assolutamente. Ovviamente avevo questa paura. Il giorno prima di conoscerlo il timore c’era: pensavo “magari non andiamo d’accordo, magari è uno tutto sulle sue…”. Invece è una persona gentilissima, ancora più delle aspettative che avevo. Certe cose le capisci quando ti fai la prima birra insieme. Le capisci fuori dallo studio, a livello umano, e pensi: con lui posso lavorare bene perché riesco a comunicare bene, e se comunico bene con una birra parlando di musica ma anche altre cose – di letteratura, di esperienze, di cazzate – allora riesco a comunicare bene anche in studio lavorando ai pezzi. E dunque ho potuto lavorare con persone di qualità enorme; oltre a Francesco Bianconi, l’album è prodotto da Ivan Rossi che produce i dischi dei Baustelle

Dove hai composto questo disco? Dopo Il disco di Palermo, questo è “il disco di Roma”?

È un disco che viene un po’ “dall’inferno”, perché l’ho composto durante la pandemia. A Roma. Ho vissuto male il coprifuoco, il non uscire, come è successo a tanti di noi. Non potevo suonare nei locali, non potevo fare tour, il mio primo album, Il disco di Palermo, non usciva, la band che avevo si era sciolta poco prima del lockdown. Per reazione facevo una vita estremamente sregolata, probabilmente è stato il momento della mia vita in cui sono stato più sregolato, perché non ci stavo a restare dentro casa. Però nascevano queste canzoni che, a livello di testi, avevano più potere espressivo. 

Sono pezzi che trasmettono secondo me una grande voglia di vivere, di amare, di spaccare il mondo. 

Infatti con disco “nato all’inferno” non intendo in senso negativo. Quello è il suo luogo di nascita, ma in realtà la sua anima è estremamente positiva. A far nascere le canzoni era il senso di frustrazione di non riuscire a vivere, non avere slanci vitali come andare a un concerto. Una sofferenza che, quando ti capita che hai passato i trent’anni, ti fa sentire i sogni infranti: una cosa che non ho vissuto solo io, credo la possano capire in tantissimi. Per questo lo considero nato all’inferno. Ma in realtà è uscito fuori con un carattere opposto, con tanta voglia di vita. 

Ora che stai affrontando il percorso solista, quali sono le differenze rispetto ai tempi dei Joe Victor? C’è qualcosa in cui ti senti più libero, oppure senti la mancanza di una dimensione da band?

Sì, è molto diverso. Succede che ti senti un po’ più solo, senza dubbio. Ovviamente la fase di scrittura è più a carico mio, nell’immagine sono esposto solo io, mi devo prendere la responsabilità di tutte le mie parole, e questo psicologicamente un po’ conta. Però sono riuscito a mantenere alcuni musicisti: gran parte di quelli che suonano con me sono gli stessi che suonavano nell’ultima fase dei Joe Victor. Quindi sono riuscito a ricreare e mantenere una dimensione da band, almeno per me stesso. 

Dopo l’ultimo Sanremo si parla molto della pressione che tanti artisti sentono per l’ottenimento di risultati, per pubblicare pezzi in maniera continua, per essere iper-produttivi. Un problema che li porta a voler “staccare la spina” per un po’ di tempo, allontanarsi dalla musica. Hai mai vissuto una sensazione del genere?

Non mi è ancora capitato di avere una pressione così forte. Forse nel mio anno trascorso in Sugar questa atmosfera un po’ l’ho annusata. Leggevo un post di James Blake, in cui parla dello strapotere dei servizi streaming, in cui devi fare numeri su numeri. E inoltre è sempre più costoso fare tour, perché il costo della vita si è alzato, la crisi c’è per tutti e girare con una band costa sempre di più. Personalmente non ho ancora ansia, anzi, ho tanta voglia di produrre perché per un paio di anni ho lavorato poco: considera che se Il disco di Palermo fosse uscito sotto il Covid non avrei potuto fare una data. Però capisco il problema che sta venendo alla luce: senza dubbio è un mondo in cui bisogna produrre costantemente, c’è fretta, e questo porta la qualità ad abbassarsi. E questi artisti sanno che invece potrebbero fare cose di qualità migliore, come hanno sognato fin da ragazzini.

Quale concerto ti ha fatto venire voglia di fare il musicista?

Sono nato in un contesto dove non si ascoltava molta musica, non apparteneva proprio alla cultura dei ragazzi. Vengo dal quartiere Parioli, a Roma. Qui ero praticamente l’unico che ascoltava musica, è stata una ricerca esclusivamente personale. Quando ero giovanissimo, certi giganti della musica come Bob Dylan, Pixies, David Bowie, sembrava che li ascoltassi solo io. Ascoltavo musica dagli anni 50 alla fine degli anni 80 e pensavo: questa è la cosa che voglio fare, questa è la dimensione in cui voglio essere. Potermi esprimere in questo modo, con la musica, mi dava una sensazione di energia.

Hai girato tantissime città. Londra, Palermo, Cortina, ovviamente Roma. Quale ti è rimasta nel cuore?

A Londra ho vissuto un anno. Ricordo che, dopo un po’ che ero arrivato, la odiavo. Forse perché a vent’anni cercavo cose vere, invece lì era tutto finto. Soldi, globalizzazione, capitalismo, a Londra tutto questo è cento volte più forte che in qualsiasi città italiana. Paradossalmente, oggi è la città in cui tornerei. Ho vissuto un anno anche a Palermo, ed è un posto magico. “Magico” è davvero la parola che lo descrive meglio, perché ha un fascino quasi esoterico. Un po’ come Torino!

A Torino sei già stato più volte, che ricordi hai?

Con i Joe Victor sono venuto tre volte. Mi porto nel cuore in particolare un concerto alle Lavanderie Ramone: l’esperienza più vicina a un “concerto dei Ramones” che ho fatto nella mia vita! Torino è una città strana, non luccica completamente. Ci sono luoghi molto luminosi, e altri molto oscuri, che sono affascinanti. Devo dire che ho una percezione molto soggettiva, perché di solito di sera arrivo, di notte suono, e riparto la mattina dopo. E quando sei preso dalla situazione, catapultato nelle città, le sensazioni te le ricordi poi in treno quando torni, ti sale tutto dopo. A Torino ricordo anche luoghi trasandati che mi ricordano alcune zone di Roma o dell’Italia del sud, non è una città tutta tirata a lucido. E poi ci sono zone estremamente avanguardistiche, luminosissime: un contrasto intrigante. Alle OGR è il mio secondo concerto; non avevo mai suonato in un posto così incredibile. È un luogo totalmente del futuro.

 

foto a cura di Elisabetta Ghignone

Paolo Albera

Scrivo di musica per chi non legge di musica.

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