In una gelida notte torinese, un folto pubblico di fedelissimi si è riunito all’Hiroshima per celebrare con i Diaframma i 40 anni di Siberia, un disco che ha segnato la storia del rock italiano
A quest’ora della sera siamo in pochi eroici sul 18 a condividere questa lunga traversata nel far west post-industrial torinese per arrivare all’Hiroshima. Un tizio sonnecchia al fondo del bus, di base fa un freddo cane e non so perché non ascolto mai mia madre quando mi dice di mettermi una sciarpa. Per parafrasare gli LCD Soundsystem, Torino I love you but you’re bringing me down. Nel frattempo, penso al fatto che è il mio quarto concerto dei Diaframma qui a Torino e ogni volta è come se fosse la prima, poi mi chiedo se riuscirò mai a buttare giù questo articolo stanotte – comunque ho una certa età –, ma soprattutto spero tanto che stasera ci sia Libra in scaletta, l’inno iconoclasta degli anni ’80 celebrato anche da Brizzi in Jack Frusciante è uscito dal gruppo.
Di solito, quando si parla di anni ’80, il primo pensiero va a quel decennio estetizzante – e anche un po’ imbarazzante – fatto di synth sfacciati, yuppies, spalline eccessivamente imbottite e ottimismo molesto. Se si risvolta l’involucro, però, ecco che escono fuori gli altri anni ’80, espressione di un postmodernismo che nel distruggere ogni certezza ha frammentato anche le identità, La Storia che si è trasformata in tante piccole storie.
Pier Vittorio Tondelli è una delle figure cardine di questa generazione perduta, una generazione che si è schiantata contro il treno della storia che aveva ormai spazzato via i movimenti di rivolta del decennio precedente, una generazione soffocata dal boom economico, libertini disperati e disillusi. Gli anni ’80 sono una fuga a bordo di un’auto sull’autobahn diretti verso il Mare del Nord, fuga che poi – in realtà – è soprattutto un viaggio, come se nell’essere in costante movimento ci fosse il fine stesso della vita. Sono, quindi, anni di enorme fermento, caustici e sperimentali, eclettici e veloci, «dagli anni di piombo agli anni di pongo», per citare Freak Antoni. Ovunque in Italia nascono esperienze di avanguardia letteraria e musicale, si sperimenta sulle ceneri del punk mescolandovi nuove istanze politiche (a Bologna Skiantos, CCCP e Gaznevada, questi ultimi partiti dalla fucina sovversiva della Traumfabrik, la casa occupata in Via Clavature 20, ed esplosi al Convegno contro la Repressione del ’77 con l’ormai storica Mamma dammi la benza), si canta il nichilismo di una dimensione urbana post-nucleare lugubre e senza futuro (Franti a Torino), si gioca con l’entropia (The Great Complotto a Pordenone, e qui vi rimando a un bellissimo articolo del nostro Brando Ratti). In questo panorama, nascono e muoiono meteore perfette (Frigidaire Tango) e si fanno strada band destinate a lasciare un segno profondo come Diaframma e Litfiba – attenzione: quelli di 17 Re – che, nel solco di band come Joy Division ed Echo and the Bunnymen, hanno rivoluzionato il panorama musicale italiano portando un rock scuro e decadente là dove imperavano la canzone pop e il cantautorato impegnato.
In un distopico 1984, i Diaframma fanno uscire il loro album d’esordio, Siberia, che già dal titolo promette ombre e freddo. E infatti Siberia è un disco fatto di ghiaccio, della luce artificiale dei lampioni di notte, di pugni affondati nelle tasche, di silenzio claustrofobico e distanze.
Arrivo all’Hiroshima e la sala è affollatissima, un pubblico di aficionados si è riunito nonostante il freddo e ci sono diverse facce giovani in mezzo ad altre – prevedibilmente – meno giovani, a testimonianza del fatto che certi testi e certe sonorità hanno ancora molto da dire e non invecchiano mai. Ore 22.15, si abbassano le luci e Fiumani – senza ciuffo d’ordinanza, ma figo come sempre – sale rapido sul palco assieme al resto del gruppo, «ciao a tutti». Ho sempre amato il suo essere così asciutto e gentile, ricordo ancora un concerto in cui le uniche parole che disse furono ciao, buonanotte e grazie: secco e dritto.
Partono le ritmiche incalzanti di Neogrigio e – come da tradizione – il gruppo esegue in ordine sparso Siberia tutto d’un fiato: il disco è un blocco unico, un unico racconto fatto di stanze vuote, vetri appannati e flebile luce invernale, impossibile scomporlo. «Oltre il muro solo ghiaccio e silenzio» canta Fiumani, riportandoci immediatamente al freddo di una guerra che è diventata parte integrante del canone post-punk anni ’80.
Le chitarre sono scarne e potenti, mancano i lampi di luce brevi presenti nella versione in studio – penso al sax di Siberia – e tutto risulta più diretto e cupo. A tutti mancherà sempre la voce dark e un po’ istrionica di Miro Sassolini, ma Fiumani reinterpreta con grande personalità tutti i brani dell’album, compresi Elena e Ultimo boulevard, bonus track presenti nella ristampa del 1992.
Il pubblico è molto presente e attento, dalle prime file parte un «Sei bellissimo!» che strappa un sorriso anche all’algido Fiumani.
Terminato Siberia la serata assume un registro diverso, meno scuro e invernale: la band propone diversi pezzi tratti da Boxe (Blu petrolio e Adoro guardarti, con Fiumani che grida «Tempes» e il pubblico risponde «taaah») e 3 volte lacrime (Spazi immensi, Marisa Allasio, Oceano). E poi ecco che infilano due gemme: la prima è una versione accelerata e ancora più punk di Libra – io felice – durante la quale parte un piccolo pogo sottopalco; l’altra è Gennaio, «l’unica canzone decente che ho scritto», chiosa il frontman. Con Altrove i Diaframma si ritirano, lasciando il palco, «ciao, buonanotte, grazie, ciao». Fiumani – stasera carichissimo – scherza addirittura con il pubblico – «spero abbiate apprezzato il mio amplificatore rosa» – ed esce.
Qualcuno ci crede davvero e lascia la sala, ma i fedelissimi sanno che non è finita. Parte, dopo qualche minuto, l’encore, durante il quale regalano al pubblico pietre miliari come Diamante grezzo e Labbra blu, una cover di See No Evil dei Television, chiudendo questo live lungo e serrato con 3 volte lacrime, inframezzato da un bellissimo momento interamente strumentale costruito in progressiva sottrazione che culmina con un assolo di Tancredi Lo Cigno alla batteria – grande protagonista di questo concerto, tra l’altro –.
Esco felice dal concerto, fa un freddo siberiano e non sono sicura che il 18 passi ancora. Sospiro. Ah, se avessi una sciarpa…