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I quit, il manifesto di evasione delle Haim

A quattro anni da Women in Music: part III, le Haim tornano con I quit, il quarto album delle tre sorelle d’America, uscito lo scorso 20 giugno per Polydor Records. Un disco che vuole fuggire dal conformismo della musica pop e dalla moralità del nostro tempo per sbarazzarsi di ogni certezza, pur di essere davvero felici


L’arrivo dell’estate coincide spesso con il bisogno di evasione. È la stagione delle vacanze, della fuga dal tran tran della vita di tutti i giorni, delle storie d’amore che nascono o che, spesso, finiscono. Sono le stesse Haim con Gone, la canzone che apre l’ultimo album I quit, uscito lo scorso 20 giugno per Polydor Records, a rendere chiaro questo bisogno: «Can I have your attention, please? For the last time before I leave». Una dichiarazione, che si trasforma in certezza nel verso seguente: «I’ll do whatever I want, I’ll see who I wanna see, I’ll fuck off whenever I want, I’ll be whatever I need».

Al loro sorprendente quarto album, le Haim sembrano volerci dire che evadere significa anche perdere interesse per qualsiasi preconcetto. Lasciarsi dietro anche le apparenti stabilità, se necessario. Le tre sorelle californiane hanno sempre voluto reinventarsi, cambiando più volte genere al loro sound. L’obiettivo era chiaramente quello di rendere più riconoscibili se stesse e il messaggio trasmesso con la propria musica. In questa rinnovata e calda stagione, il gruppo sembra distaccarsi completamente da quelli che erano i temi di Women in Music: part III, il loro precedente album. Via quindi la compostezza di una femminilità che, più che una certezza, è un costume per nascondere le proprie insicurezze. Con I quit, l’intenzione di Alana Mychal, Danielle Sari ed Este Arielle è quella di ricordare alla propria generazione che è giusto sentirsi sbagliati, ed è necessario lasciare spazio al lato più sentimentale di sé, al netto di qualsiasi apparente moralismo sociale. Del resto, chiudere un album affermando «Am I reaching out to say I never gave two fucks anyway?», non lascia spazio ad alcuna interpretazione.

Questo bisogno è ovviamente ben sottolineato nella produzione dell’album, affidata ora a Danielle e al solo Rostam Batmanglij, produttore storico (oltre che co-fondatore) dei Vampire Weekend. Un cambio di guardia non indifferente, che rappresenta pienamente una rottura dallo storico della band, che chiude così i rapporti con la collaborazione di Ariel Rechtshaid (che è anche l’ex compagno di Danielle Haim). È quindi evidente la virata verso un suono più acustico e ovattato, ispirato a quello che molti etichetterebbero come soft-rock. Quanto detto, si manifesta specialmente in brani quali Try to feel my pain, il singolo Down to be wrong o Love you right, in cui il ritorno verso l’essenziale mette da parte il pop commerciale che molte autrici della scena contemporanea sembrano prediligere – e che le stesse Haim sposavano nei primi album della loro carriera –.
Tale distacco non rappresenta solo la volontà di dare un respiro sempre diverso alla propria musica, ma anche il bisogno di allontanarsi, anzi di evadere, da un suono più uniforme tipico dei primi lavori della band.

Sono evidenti, infatti, le influenze dell’R’n’B e qualche accenno blues per strizzare l’occhio verso la grande canzone d’autore americana: un modo per ricordare all’ascoltatore che ci sono anche ragazze che, pur essendo giovani, sanno rendere moderni i formalismi del passato; ma anche per raccontare meglio il proprio background musicale. Certo questo rappresenta un rischio per una band così riconosciuta, ma è anche un gesto che appare necessario, perché la loro non è mai stata una fama da celebrità. In parte, questa scelta rispetta il contesto in cui sono cresciute, umanamente e artisticamente. Le tre sorelle sono infatti originarie di San Fernando Valley, una contea nei sobborghi di Los Angeles: le Haim sembrano raccontare l’animo della provincia in una città che è il centro dell’industria dell’intrattenimento americano. In tal senso, le trame che vengono ordite nelle canzoni di I quit manifestano, ancora una volta, questo bisogno di restare fuori da qualsiasi logica strumentale. Le ambientazioni raccontano di amori ben distanti dai riflettori hollywoodiani, ma allo stesso tempo immerse nel contesto dell’atmosfera mitizzata di Los Angeles.

«In my car, Cut down Ventura Boulevard, Trying to get nowhere, getting lost, I hit the coastline and the water, Into the ocean»: In Million Years – forse la canzone più pop del disco –, questo bizzarro contrasto tra le atmosfere della decadenza della città degli angeli e il senso di smarrimento è ancora più evidente. Generalmente, lo smarrimento coincide, però, con uno sguardo di profonda nostalgia: verso il passato, verso un amore perduto, verso una forma-canzone che sia più diretta. Questa dichiarazione di intenti sembrava già piuttosto evidente dalle copertine dei singoli che hanno anticipato l’album, che ricreavano famosi scatti di paparazzi alle celebrità degli anni ’10. In quelle foto, si intravedeva l’evasione delle star dai riflettori, nel tentativo di vivere i guai e le soddisfazioni di una vita più terrena: «And my sister said: It’s alright, You can stay with me, If you need a place to calm down, ‘Till you get back on your feet», scrivono le HAIM in The Farm. Fuggire, quindi, piuttosto che lasciarsi appiattire da ciò che annichilisce. Perché in fondo scappare non è sempre un male, può anche essere l’unico gesto in grado di garantire a se stessi una piccola ma piacevole rivoluzione, necessaria pur di essere felici.

Massimiliano Zito

Tra Lester Bangs e Éric Rohmer, la filologia moderna e il garage rock. Conduco un podcast che si chiama "Due Dischi". Vorrei far diventare la scrittura un mestiere per evitare di lavorare davvero.

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