In tour con Nevermind The Tempo, ultima fatica discografica targata Locomotiv Records, gli I Hate My Village sbarcano al Milk di Torino con un concerto denso e travolgente, tra ritmi africani, virtuosismi jazz e distorsioni sonore. Un live audace e immersivo, che fa delle proprie imperfezioni uno strumento compositivo, portando la musica a una dimensione più terrena, più fisica, più umana
Quella di supergruppo è una definizione strana, spesso rifiutata dai diretti interessati – per modestia o per zelo – eppure mai del tutto abbandonata non solo da chi fa il mio mestiere, ma anche da chi di musica s’intende, s’informa o semplicemente ne discute con gli amici. Il fatto è che, al di là del culto estetico per le parole – che, diciamoci la verità, boccerebbe il sostantivo all’istante –, si sente la necessità di distinguere dagli altri un progetto musicale come quello degli I Hate My Village, che vanta tra le proprie fila talenti spropositati della musica indipendente italiana: una musica fatta di ricerca, di groove incalzanti e contaminazioni sonore.
Benché la band abbia già dato larga prova del suo estro nei due album pubblicati per La Tempesta Dischi e Locomotiv Records (l’ultimo lo abbiamo recensito qui), è però solo dal vivo che rivela tutto il suo fascino e la sua potenza. In live risulta, infatti, perfettamente bilanciata nelle dinamiche e nei suoni, calibrata negli incastri tra le parti così come negli errori, che finiscono per diventare parte integrante del proprio vocabolario espressivo. Le piccole imperfezioni si rivelano infatti il tratto distintivo e decorativo di un’esibizione che, data la sua complessità, sarebbe altrimenti meramente contemplativa: sicuramente impeccabile, ma forse meno umana.
Un’impressione, questa, che riemerge nel corso del concerto di ieri sera al Milk di Torino, riportando il pubblico locale alle vibes con cui il gruppo lo aveva salutato lo scorso 25 maggio, in occasione del festival Jazz Is Dead!. Dopo un’attesa piuttosto lunga – a due ore dall’orario di apertura dei cancelli, senza alcuna band in apertura –, il gruppo fa finalmente il suo ingresso in scena, mentre sullo sfondo risuona Vattene Amore di Mietta e Amedeo Minghi. A interrompere bruscamente l’atmosfera vagamente trash – ma quel trash ironico a cui tutto è concesso –, irrompono i fraseggi alla chitarra elettrica di un Adriano Viterbini che, da questo momento fino alla fine del concerto, appare totalmente immerso nella propria esibizione, preso e disperso tra palmuting silenziosi, riverberi e pedali di ogni sorta, come travolto da uno stato emotivo di trance.
Così comincia, sulle note di Artiminime, il concerto degli I Hate My Village.
A trascinare tutto il groove è uno straordinario Fabio Rondanini, che dietro ai fusti di batteria, i pad elettronici e i campanacci scivola con decisione sulle pelli, richiamando i ritmi percussivi dell’Africa e del centro-sud America. Degno di nota, in questo senso, l’assolo di rullante che Rondanini suona a mani nude, con un tocco delicato e ammaliante, seduttivo da lasciare incantati. Impassibile e composto – stereotipo del bassista –, Marco Fasolo completa la sessione ritmica alle quattro corde. Da buon produttore, tira le fila dalle retrovie, tanto contenuto quanto incisivo nelle sue linee di basso distorte, che spesso fraseggiano sulle ottave alte a scanso d’ogni mimetismo. A completare la formazione è, ovviamente, Alberto Ferrari, responsabile delle distorsioni e delle linee vocali che, anch’esse sporche e disturbate, si mischiano al comparto sonoro, offrendosi come elemento noise piuttosto che melodico.
Va però fatto, a questo punto, almeno un accenno all’amalgama dei suoni, nota dolente del concerto che, per una buona metà del live, è apparsa poco calibrata. Complice forse l’acustica di un luogo poco abituato a ospitare concerti live, la disposizione delle casse agli angoli estremi del locale – molto lontane dal palcoscenico – o forse ancora la regia, la chitarra solista di Viterbini – principale protagonista della band – a tratti si perdeva nell’insieme, soffocata dai muri distorti di Ferrari. In più, le due chitarre apparivano tra loro distanti e isolate, come relegate ciascuna a un solo lato dell’impianto stereo, vittime di un panning poco bilanciato.
Tuttavia, difficile distogliere l’entusiasmo da un live di questa portata, al cospetto di musicisti che portano sul palco la propria esperienza illustre tra le fila di alcune tra le band più significative del panorama italiano degli ultimi decenni, quali Verdena, Bud Spencer Blues Explosion, Calibro 35, Afterhours e Jennifer Gentle. Ciascuno a suo modo protagonista negli I Hate My Village, testimone del proprio sound e bagaglio musicale, riconoscibile ma al tempo stesso complementare, diluito in un insieme che ha il sapore di qualcosa di nuovo, d’innovativo, di unico.
Dopo il consueto richiamo sul palco per l’encore, il live si chiude con un’iniziativa al quanto audace e, a parer mio, lodevole. Sulle note di Tony Hawk Of Ghana – che, tratta dal primo disco della band, rimane forse il suo fiore all’occhiello –, Alberto richiama sul palco il pubblico del Milk, che senza pensarci due volte si fionda accanto ai musicisti, ballando al ritmo esotico della chitarra di Viterbini. Una trovata coinvolgente, che abbatte la quarta parete e rivela tutta l’affabilità di musicisti che, benché affermati e a tratti cult, ritrovano ancora nel calore del proprio pubblico lo stimolo primario del fare musica. Il live prosegue in questa nuova veste di esibizione collettiva per tutti gli ultimi tre brani presenti in scaletta, lasciando ad alcuni tra i molti fortunati che sono riusciti a saliti sul palco, oltre a un bellissimo indelebile ricordo, i plettri dei due chitarristi e le bacchette di Fabio Rondanini; e forse, m’è parso, perfino qualche sorso dal drink di Alberto Ferrari.
E così, travolti da un abbraccio collettivo, gli I Hate My Village abbandonano lo stage sorridendo, pronti a proseguire con la prossima data del tour di Nevermind The Tempo, il 13 dicembre all’Urban di Perugia.