L’ultimo film di Pablo Larraín racconta le fragilità e i tormenti di Maria Callas che, come tante altre icone della storia della musica, si è trovata a dover scendere a patti con la consapevolezza che i tempi in cui la sua voce ha conquistato il mondo sono finiti. Una riflessione sull’essere divina senza poter essere eterna
Credo sia impossibile quantificare il numero esatto di biopic usciti negli ultimi anni. Si tratta forse del genere cinematografico più abusato degli anni 2000, ma è una formula che funziona fin dagli albori della settima arte. Raccontare la storia – o il più delle volte una determinata parte di essa – di un personaggio noto, spesso con lo scopo di andare oltre ciò che i più pensano di conoscere, è quasi sempre stato sinonimo di incassi al botteghino. Tra i tanti motivi di questo successo, il primo è abbastanza semplice da intuire: quando si approccia a un film, al pubblico piace avere una base di riferimento dalla quale partire. Poi, c’è chi preferisce lasciarsi sorprendere e chi invece vorrebbe una conferma a tutte quelle informazioni che già possedeva, ma questo è un altro discorso. In ogni caso, il biopic è un genere che, nel suo apparente schema stantio, offre numerose possibilità espressive grazie alla singolarità delle biografie raccontate sul grande schermo.
Ne sa qualcosa Pablo Larraín, regista cileno classe 1976 che, nel corso della sua prolifica carriera, ha fatto del genere in questione un punto di riferimento per molti dei suoi film, a partire dal più canonico ma bellissimo Neruda (2016) fino al folle e visionario El Conde (2023), che racconta del dittatore Augusto Pinochet in chiave vampiresca. In mezzo a queste due opere c’è stata la svolta del regista al mercato americano, che con Jackie (2016) e Spencer (2021) – dedicati rispettivamente alla first lady Jacqueline Kennedy e alla principessa Lady Diana – ha confezionato due film volti in primis a esaltare non solo le figure narrate, ma anche le sue interpreti, ovvero Natalie Portman (Jackie) e a Kristen Stewart (Spencer), senza tuttavia riuscire nell’intento.
Con Maria, la sua ultima fatica, uscita in Italia il primo giorno del 2025, Larraín chiude la sua trilogia su alcune delle icone femminili del ‘900 e lo fa raccontando per la prima volta la storia di un personaggio legato al mondo della musica: il soprano Maria Callas, della quale il film narra l’ultima settimana di vita, quando aveva 53 anni e ne erano passati ormai quattro dal suo ritiro dalle scene.
Provando a suddividere il genere del biopic in sottogeneri, quello musicale è uno dei più apprezzati. Forse perché, nel raccontare di un artista famoso e apparentemente perfetto, ha sempre attratto l’esplorazione dei lati più oscuri sia del mondo interiore del personaggio, sia del contesto in cui la fama e il successo lo hanno immerso. Nel caso di Maria, il tema di contorno è l’esplorazione della lotta interiore tra il desiderio di tornare sul palcoscenico e gli evidenti problemi di salute affrontati in quel particolare periodo della sua vita.
È il 1977. Maria Callas è un’icona vivente. La sua voce ha incantato il mondo intero. La sua figura è mitologica, come i personaggi che incarnava mettendoci l’anima. Divina, Maria Callas è il corrispettivo lirico di ciò che Greta Garbo è stata per il cinema. Come l’attrice svedese, anche lei ha scelto di ritirarsi – anche se molto più in là con l’età, ma comunque prima del previsto –, così che il pubblico potesse avere di lei e della sua voce il ricordo migliore possibile. Ha bruciato tutti i suoi abiti di scena, come a simboleggiare la fine di un’era. Maria è una donna dal carattere forte, a volte scontroso e permaloso, la cui battuta pronta, accompagnata da uno sguardo apparentemente sempre sicuro di sé, è in realtà la maschera che nasconde una serie di fragilità e ossessioni.
E qui ci troviamo di fronte al punto focale del film, che è un character study: un’analisi critica del rapporto tra personaggio, «La Callas», e persona, «Maria». La Callas – così viene definita nel film – è la diva che fu; l’artista che nel 1977, fuori dalle scene da quattro anni, esce a fare una passeggiata per Parigi col solo scopo di farsi adorare, come fieramente ammetterà lei stessa, ossessionata da quello che è stata e che in fondo sembra vorrebbe ancora tornare essere. Maria è invece la donna che si riempie di farmaci e che fuma senza farsi vedere da nessuno. Il suo maggiordomo Ferruccio, interpretato da Pierfrancesco Favino, le chiede quante pillole di Mandrax ha assunto durante la giornata: lei risponde 2; lui annota 4, perché sa che sta mentendo.
Maria è una persona che non ha fatto i conti col passare del tempo, col decadimento del proprio strumento, la voce. Il che, specialmente in un genere così particolare e viscerale come l’opera lirica, vuol dire avere a che fare col decadimento del proprio corpo intero e della propria anima. Maria non riesce a scendere a patti con l’amara consapevolezza che non è più quella di una volta. È fisicamente consumata; è diventata magrissima, come un’altra diva, quella che la interpreta, Angelina Jolie – la cui performance è forse una delle migliori della sua carriera –. Maria lotta contro il tempo e il suo animo è tormentato dalla netta separazione tra sfera pubblica e privata, tra la diva e la persona, che nel suo caso si traduce in una separazione netta tra realtà e allucinazione, tra ciò che vede e ciò che vorrebbe vedere.
La storia di Maria Callas presenta numerose analogie con quella di molte star della storia della musica – e dello spettacolo in generale –, le quali, a un certo punto della carriera, hanno dovuto affrontare il proprio declino. La voce è lo strumento più delicato che ci sia; infatti, parliamo quasi sempre di grandi cantanti, spesso dalla vocalità molto delicata, la cui sofferenza per la progressiva decadenza della qualità vocale è il dramma peggiore che possa presentarsi. Si pensi a The Voice Whitney Houston, che dopo il successo planetario negli anni ’80 e ’90 si ritirò a causa di problemi personali e vocali. Quando tornò sul palco, per un breve periodo nel 2009, si notò subito che la sua voce non era più quella di un tempo, deteriorata dalle droghe che l’avrebbero portata alla morte pochi anni dopo, a 48 anni. Sorte simile toccò a un’icona come Billie Holiday, che visse i suoi ultimi anni di carriera e di vita lottando contro le dipendenze e la perdita di quella voce che l’aveva resa una leggenda del jazz e una delle più grandi interpreti della storia della musica. E lei ne fu consapevole, sapeva che le cose erano cambiate, nonostante la continua venerazione del suo pubblico che la sostenne fino alla morte, avvenuta a 44 anni.
Il tempo è implacabile e l’arte è più potente degli artisti, i quali è come se si offrissero semplicemente al suo servizio. E il declino mette a nudo quanto sia fragile il mito costruito attorno a un personaggio pubblico, i cui strumenti per conquistare il mondo non sono eterni. Maria Callas ha avuto una carriera immensa, ma ha pagato il prezzo di un carattere che, ormai fuori dai giochi, le ha portato contro buona parte della stampa – sempre avida di scoop –. Il film offre una riflessione molto chiara sulle delicate dinamiche che caratterizzano la psicologia di un’artista che, costantemente in bilico tra l’immagine ideale di sé e la cruda realtà, vorrebbe essere perfetta senza poterlo essere davvero.
Maria in fondo è una donna semplice, con un talento d’oro, ma comunque piena di fragilità e di fantasmi che le fanno vedere cose – esterne a lei e di lei stessa – che forse non esistono realmente. Il dramma interiore del soprano rivela la vulnerabilità che si cela dietro il divino, ovvero l’eterno errore che buona parte degli artisti, o più in generale delle celebrità, saranno destinati ad affrontare quando si troveranno sul viale del tramonto.