La musicista, producer e dj canadese si conferma come una delle artiste più interessanti dell’elettronica internazionale: il suo sesto album City of Clowns, prodotto dai Soulwax e da Pierre Guerineau, è un manifesto politico e musicale contro il capitalismo digitale e la relativa sorveglianza
È possibile ballare usando il cervello? Sì, ed è questo quello che cerca di trasmetterci Marie Davidson con il suo nuovo lavoro City of Clowns. L’album, sesto della sua discografia solista, è uscito lo scorso 28 febbraio per l’etichetta Deewee dei guru dell’electro-rock Soulwax, per l’occasione co-produttori insieme al compagno di musica e di vita Pierre Guerineau.
La 38enne musicista, producer e dj canadese che si autodefinisce un’artista che «sfida le norme della musica dance attraverso uno storytelling introspettivo in grado di unire generi diversi che vanno dalla techno all’italo disco», riprende suoni e critica sociale dell’acclamato Working Class Woman, portandoci contemporaneamente sul dancefloor. Questa volta, nel mirino di un disco che la stessa Davidson definisce come il più politico della sua già notevole produzione, c’è la tecnologia. Una tecnologia che non supporta le attività umane, ma che sorveglia fino a controllare menti e azioni, arrivando ad assorbirle e omologarle.
In mezzo a questa realtà (solo fino a un certo punto) distopica, l’artista si muove in modo sciolto e gradevole, proponendo melodie sintetiche dove l’elettronica si mescola a incursioni pop e testi sarcastici, parlati e ipnotici; il tutto senza rinunciare a ritornelli killer. Le intenzioni sono chiare fin dalla prima traccia Validation’s Weight, capace di calare l’ascoltatore in atmosfere claustrofobiche ma sensuali. Un loop che caratterizza anche gli altri brani strumentali come Statistical Modeling e Contrarian.
City of Clowns esplode letteralmente con la successiva e incessante Demolition: il titolo ripetuto ossessivamente, infatti, si trasforma in un mantra per sottolineare il modo in cui i dati digitali invadono il campo dell’umano regolando tempi e relazioni («By the way / I don’t want your cash now / All I want is you / I want your data / Data baby»). Si prosegue in crescendo con Sexy Clown, uno dei pezzi più pop dell’album, in cui Davidson rivendica la propria indipendenza («I’d love to be a bitch? / I’m ever so sorry, I don’t think I fit / Any categories of the given list»).
Questo non è altro che un varco di ingresso alla parte centrale e più intensa, in cui l’ostilità verso le forme di sorveglianza imposte dal business digitale (Push me Fuckhead) si fonde a una riflessione più profonda sulla creazione artistica (Fun Times), quest’ultima accostata alla gravidanza. L’apoteosi è poi rappresentata da Y.A.A.M., con un enorme FUCK YOU al mondo del music business («Entrepreneurs and producers and freelancers to managers (…) I want your ass on the floor»); un mondo da cui Davidson si dissocia volentieri, affiancandosi invece a chi resta fuori dai canoni ordinari («I stick with the weirdos»).
Se pensate che la chiusura dell’album sia più blanda, vi sbagliate di grosso: anche le ultime due tracce, infatti, mantengono l’asticella altissima. Prima di tutto con Unknowing, dove l’affermazione «You will never catch me» diventa un vero e proprio manifesto artistico. Infine, con l’illuminante remix di Y.A.A.M. firmato dai co-producer Soulwax.
Con City of Clowns, Marie Davidson si conferma una delle artiste più interessanti della musica elettronica internazionale. Un album che, grazie alle sue contaminazioni pop contemporanee, risulta accessibile a un pubblico più vasto senza rinunciare a una forte identità. E senza rinunciare a un attacco intelligente, sottile ma feroce, a quel capitalismo tecnologico in salsa Musk che oggi più che mai sta dimostrando di poter decidere le sorti (ahinoi) dell’umanità.