Con Abomination revealed at last, John Dwyer e la sua truppa colpiscono dritti allo stomaco e alla nuca tra rabbia politica, groove ipnotici e sciabolate punk: il ventinovesimo album della prolifica garage rock band californiana è un manifesto che si erge contro l’apocalisse quotidiana
Con il ventinovesimo album in studio Abomination revealed at last, uscito a un solo anno di distanza dal precedente Sorcs 80 e pubblicato dall’etichetta indipendente “di famiglia” Deathgod Records, gli Osees (già Thee Oh Sees, già Oh Sees) presentano un lavoro che non ha bisogno di sfumature per farsi capire: è rabbia pura, protesta incontrollata, irriverenza sonora, un urlo politico in musica.
Registrato in uno studio vicino a una tent city dismessa in Texas, ex centro di detenzione per migranti che si erge a luogo altamente simbolico, il disco ribolle di una tensione palpabile a ogni nota, come se ogni vibrazione fosse parte di una reazione violenta al mondo reale che scivola velocemente verso il caos. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, però, l’aggressività globale non impoverisce un suono in cui la band guidata da John Dwyer si rivela ancora una volta eccellente nel trovare equilibri precisi: le percussioni doppie, i riff scabrosi e i synth primordiali convergono infatti in un album che suona familiare come un funerale per un mondo in frantumi, ma anche come un inno di liberazione.
Il viaggio sonoro proposto da Abomination revealed at last inizia senza cerimonie: nell’opener Abomination, infatti, il punk hardcore si materializza in un’esplosione di urla e distorsioni che dura meno di due minuti, una detonazione che sembra scuotere i muri dello studio e risvegliare l’ascoltatore con una spinta brutale, quasi ancestrale. Poi arriva Sneaker, dove Dwyer gioca con la ripetizione ipnotica «Skin like metal / Fold like a river / Bend like a reed», mentre i due batteristi Dan Rincon e Paul Quattrone si fanno carico della tensione ritmica in un groove kraut-punk che diventa pattern sonoro oltre lo scoppio iniziale.
In God’s guts, il sarcastico attacco alla religione politicizzata si manifesta con toni sgraziati («I know you’re a man of faith / Dipped in blood and ordained») e una combinazione perversamente ballabile di ritmi disco-punk febbrili e urla rabbiose, come un predicatore impazzito che agita rabbia sotto una luce strobo. Ma il disco non è tutto caos indifferenziato: l’elettronica, infatti, fa capolino in Infected chrome, tra synth new wave e un ritornello che sembra rassicurante («It’s alright / It’s alright») ma che diventa inquietante nel contesto e nel frastuono generale dell’album.
I brani seguenti continuano ad essere “ad alta densità emotiva”. In Ashes 1 e Ashes 2 sembra che il tempo si dilati e si rompa: poche decine di secondi ma carichi come un pugno allo stomaco, in cui Dwyer urla «What! The! Fuck! Is going on?!» con una rabbia compressa che esplode in un crescendo di violenza sonora in puro stile guerrilla punk. Nella micidiale Fight simulator, il frontman urla «I am insufferable, unbelievably satisfied…» con un ironico tono aristocratico, quasi distaccato, che poi si dissolve in un sussurro sempre più lento: «For how long?», un grido di esausta frustrazione che cola come cera da una candela.
La carica politica diventa feroce e diretta con Protection, un brano in cui Dwyer vomita su un ritmo proto-punk la frase «Musk is done / Mark is done / We want / Shift that’s coming», lanciando frecce affilate contro i colossi tech e il loro mondo di sorveglianza e controllo. Coffin wax, Glue e Glass window continuano questa alternanza tra furia e ritmi stranianti. In Glitter-shot, che chiude il disco con un senso di cupo realismo, la band declama con voce bassa e monotona: «The lies keep the capitol alive / The tyrant needs attention to survive», un ritratto freddo e lapidario di potere che si nutre di menzogne e visibilità.
In questa alternanza continua tra brutalità e trance psichedelica, tra cattiveria diretta e precisione, Abomination revealed at last si distingue come un manifesto sonoro rabbioso, ma anche sensuale e accattivante. La critica lo percepisce come una furiosa risposta al disfacimento del mondo: non un pamphlet, ma una scarica elettrica che scorre tra hardcore punk, garage rock, krautrock, psichedelia ed elettronica. Parliamo di un album sprezzante, intelligente e incazzato, con uno stile che sa prendersi regole proprie con testi politici e ribelli che arrivano dritti allo stomaco e alla nuca: si tratta di un disordine orchestrato, un caos collaudato e un sogno distopico; ma anche di un invito, un urlo, un incitamento ad ascoltare e reagire. Se gli Osees sono ancora capaci di sorprenderci, lo fanno con energia che non si arrende al tedio del presente; prendiamone atto e lasciamo esplodere il volume di un disco che si candida ad essere tra i migliori del 2025.

