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Forme liquide e futuri possibili nella notte del Flowers Festival

Al Flowers Festival, nella cornice del Parco della Certosa Reale di Collegno, si sono alternati sul palco Lorenzza, Joan Thiele e Franco126. Una serata intensa e sfaccettata, tra l’energia urbana di Lorenzza, l’eleganza retrò di Joan Thiele e la malinconia pop di Franco126 il palco del Festival si è trasformato in un piccolo teatro di ricordi ed emozioni


Sono nata d’estate, ma «odio l’estate», come cantava Bruno Martino, o, per dirla con Guido Catalano, «mal di testa da insolazione, secchezza delle fauci» 24/7. Una cosa però dell’estate salverei: la musica. E no, non mi riferisco alla valanga di tormentoni estivi con data di scadenza fissata al primo di settembre, ma ai concerti all’aperto che sono sempre un momento di condivisione collettiva e un bel modo di vivere gli spazi urbani e naturali. Il Flowers Festival, in questo senso, da anni è per torinesi e non un appuntamento fisso, una tradizione estiva: quest’anno il festival, prodotto come sempre da Hiroshima Mon Amour e come sempre tenuto nei suggestivi spazi del Parco della Certosa Reale di Collegno, propone un menu ricco, che spazia dal cantautorato di Lucio Corsi e Brunori Sas fino all’attitude punk dei Viagra Boys e al flow tagliente di Fabri Fibra.

Questa seconda data in particolare del festival, però, è croccantissima: si alternano infatti sul palco Joan Thiele e Franco126, aperti da Lorenzza, rapper italo-brasiliana che è cresciuta moltissimo negli ultimi anni, pubblicando il suo primo album nel 2024, A Lorenzza, e firmando una serie di collaborazioni prestigiose nel 2025, quali quelle con Elodie e Ariete. Lorenzza apre con Toda la noche proponendo altri pezzi dell’album come In & Out e il type beat di Drake registrato per esse Magazine. Pur essendo ancora relativamente presto c’è già un bel pubblico sotto palco che risponde e dialoga con l’artista – rincorrete i vostri sogni, fate ciò che vi fa stare bene e che vi rappresenta, questo l’invito di Lorenzza che in un certo senso anticipa i temi che porta poco dopo sul palco anche Joan Thiele –.

Joan fa il suo ingresso accompagnata dai musicisti Franz Aprili, Emanuele Triglia, PascalQwale – e Steasy completamente vestita di bianco, con l’aura sixties che la caratterizza, sulla melodia dal gusto un po’ retrò di Pazzerella in cui campiona nientemeno che la voce della nonna. Joan è per me una delle artiste più interessanti del panorama musicale contemporaneo italiano, ma a dirlo non sono soltanto io, perché sono molti gli attestati di stima e i riconoscimenti che sta ricevendo da colleghi e addetti ai lavori. Artista dalla sensibilità spiccata e dal gusto sonoro raffinato, negli ultimi anni ha costruito un percorso musicale personale, contaminato e sempre più ricco di sfumature. Emblematica in questo senso è la sua recente collaborazione con Neffa nell’album Canerandagio pt.1, dove la voce elegante di Joan in Miraggio si intreccia perfettamente con le atmosfere soul e rap tratteggiate dall’artista campano e da Gemitaiz. Ma è con Joanita che l’artista quest’anno ha compiuto una piccola magia: il disco è un trip sonoro quasi cinematografico, da pellicola d’autore. Le atmosfere del disco sono dense, polverose, a tratti rarefatte, come se arrivassero da un western fuori dal tempo: non a caso, è con i riverberi desertici e le chitarre di La forma liquida – direttamente uscite da una colonna sonora di Morricone – che Joan Thiele apre questo live.

Sono molti i pezzi di Joanita proposti durante la performance: c’è Veleno, sostenuto da dense luci verdi, Acqua blu e la potentissima Eco, presentata a Sanremo quest’anno, e poi ci sono pezzi dove si percepisce più marcatamente un certo immaginario anni ’60 e ’70. C’è un gusto fortemente italiano in questo lavoro, con richiami evidenti alla scuola musicale di Piero Umiliani e a quella tradizione di compositori che sapevano unire melodia e sperimentazione, leggerezza e profondità. Con Occhi da gangster e Tramonto Joan Thiele fa entrare il pubblico in una fotografia seppiata, nel languore lento dei pomeriggi d’agosto, sul mare che luccica sotto il sole in un omaggio al defunto maestro Umiliani e ai suoi paesaggi smaltati, luminosi e mediterranei. Ecco poi «un pezzo a cui tengo particolarmente, sempre a testa alta, nasci puta come santa, fidati di te»: con Bacio sulla fronte – prosecuzione ideale di Puta – Joan porta il pubblico in territori fumosi e interiori, parlando alla sua bambina interiore e ricordandole di restare sempre vera. Con la festa tribale di Cruz si chiude un live fatto di revolverate, duelli da saloon, echi tropicali e parentesi intime e luminose che ci hanno lasciato tutt* innamorat*.

Il palco si accende e si trasforma in uno di quei luna park di provincia, caramelle scintillanti dove trovi l’immancabile tendone dell’indovina che predice il futuro. Sbuca un’enorme sfera di cristallo – ma dov’era prima? –, le lampade in stile boudoir si accendono e si svela sotto il drappo di velluto rosso che copre una cabina sulla sinistra il volto digitale del mago Zoltar. Sullo sfondo campeggia la scritta Futuri possibili: è il momento della canzone d’autore di Franco126, uno degli ospiti più attesi di questo Flowers Festival. L’ultimo album dell’artista romano, Futuri possibili, freschissimo di pubblicazione, porta la cifra morbida e autentica della sua penna: trama sonora sperimentale e testi di malinconia un po’ sghemba che partono dall’analisi di ciò che resta quando un amore finisce ricordando in questo uno dei testi più violentemente tristi della canzone italiana, Vendo casa, «questa casa ha visto amore, oggi vede un uomo che muore».

Il live di Franco126 questa sera non lascia nulla al caso: la scenografia sul palco è studiata nei minimi dettagli, l’interazione tra i membri della band – per l’occasione, «eleganti, un po’ Parioli» –  è calibrata e ben cadenzata, le battute sono ponderate e non mancano momenti interattivi con il pubblico, come il QR code da scansionare per essere rimbalzat* sulla pagina Instagram del mago Zoltar o il momento karaoke con il testo di Nuvole di drago che scorre sullo schermo della cabina del mago. Colpo di genio o tocco trash, non so decidermi. L’intera performance è sostenuta da un tappeto di luci denso e quasi narrativo, come la nebbia arancione che invade il palco in Prima dell’alba, «nemmeno te ne accorgerai e un altro vestirà i miei panni», abbandoni e struggenti rimpiazzi – in sostanza, Rimmel che fa scuola –; la ragazzina vicino a me scoppia a piangere – breve momento di imbarazzo, che fare? Vado al bar –. Franco126 regala piccole polaroid di solitudine urbana, l’amore che sparisce sotto le luci rosse del quartiere cinese (Nottetempo), un battistiano basilico che muore di sete (Ancora no), la celebrazione dell’immancabile amico sgangherato della ballotta in Simone (omaggio a Ugo Borghetti) quando a un certo punto la palla di cristallo lo rispedisce nel passato con una nostalgica Maledetto tempo, che omaggia il tempo compresso di Franco Califano. Sono tante le reference di Franco126 che si possono cogliere, dal cantautorato che ha fatto la storia della canzone italiana – Dalla, i già citati Califano e Battisti, ma anche la vena un po’ scanzonata di Rino Gaetano – fino all’indie contemporaneo di Calcutta e Fulminacci — e qui, credits e big up per Simone, lui sa —.

Franco126 e i musicisti – tantissimi, sul palco – lasciano lo stage. Qualcuno abbandona già l’area concerti ma non l* fedelissim*, dal prato parte un «se non metti l’ultima noi non ce ne andiamo», perché l* fedelissim* sanno che non è finita qui: e infatti Franco126 torna. Il pubblico chiede Brioschi e lui lo accontenta. È stato bello rega’, ora però, come si dice, «s’è fatta ‘na certa».

 

foto di Elisabetta Ghignone

Chiara Correndo

CCCP, drum'n'bass e Ornella Vanoni. Made in Turin.

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