Un muro di suono imponente e un’intensità viscerale: finalmente i Fontaines D.C. tornano a Bologna, inaugurando con carisma e potenza sonora sia l’inizio dell’attesissimo tour europeo della band irlandese, sia la stagione 2025 del Sequoie Music Park. In apertura, i londinesi Shame
Con un concerto andato sold out poche settimane dopo l’uscita dei biglietti, il 17 giugno è stata una serata densa di energia e aspettative, che ha regalato un’esibizione intensa e magnetica. Ad aprire le danze sono gli Shame, dal set ruvido e coinvolgente e con probabilità una delle realtà più interessanti della scena indipendente inglese contemporanea. Tra le band di punta di quello che viene etichettato come “nuovo movimento post-punk britannico”, il loro sound ha saputo fondere con maestria frammenti punk con un edonismo intriso di sonorità indie-rock, accompagnato da testi incisivi e provocatori. Travolgenti, elettrizzanti e scatenati, gli Shame hanno preparato il terreno per l’esibizione degli attesissimi Fontaines D.C., protagonisti assoluti della serata.
Nonostante l’iniziale blackout tecnico che ha interrotto l’energia elettrica per una quindicina di minuti, l’attesa è stata ripagata in un istante quando i Fontaines D.C. sono risaliti sul palco e hanno attaccato a suonare. L’ingresso è stato graduale ma inesorabile: un basso pulsante ha aperto la marcia, seguito da una batteria profonda e cavernosa, poi tastiere stratificate, fino all’irruzione di un sintetizzatore distorto, abrasivo, che ha riempito l’aria con una tensione elettrica palpabile. Intorno, luci verdi lampeggiavano furiosamente, perfettamente sincronizzate con il battito del brano. Sullo sfondo, l’iconico cuore argentato e deformato – emblema visivo dell’ultimo album Romance – incombeva come un simbolo carico di ambiguità e significato. È proprio la maestosa e minacciosa Romance ad aprire il concerto: un’apertura teatrale e spiazzante, subito seguita da Jackie Down the Line. Da quel momento in poi, Grian Chatten, Conor Curley, Carlos O’Connell, Conor Deegan III e Tom Coll hanno completamente rapito il pubblico, ormai appeso a ogni parola.
Una particolarità dei ragazzi irlandesi è la loro capacità di parlare trasversalmente a più generazioni: dai ventenni affamati di verità ai veterani del post-punk, come se riuscissero ad arrivare dritti allo stomaco di chiunque abbia qualcosa da urlare o da ricordare.
I Fontaines D.C. sono una band che incarna la dualità in ogni nota: in brani come Big e Favourite riesce a far scatenare il pubblico con sound potenti e con la sua incredibile presenza scenica, ma sa anche farlo crollare emotivamente con pezzi più malinconici e introspettivi, come In The Modern World e Nabokov. Questa alternanza tra euforia e introspezione crea un’esperienza unica, dove ogni emozione è vissuta intensamente. E quando infine, dopo l’ultima nota, ci si trova a fissare il vuoto oscillando ancora al ritmo della musica, si comprende che ogni secondo è stato perfetto. Grian Chatten è rimasto per lo più silenzioso tutta la sera, salvo qualche ringraziamento sussurrato. Con una sola eccezione: poco prima di I Love You, ha alzato lo sguardo per pronunciare, con voce ferma, «Free Palestine. Thank you», suscitando fragorosi applausi e conferendo una risonanza politica e attualissima all’intera esibizione.
E poi, come da rito, il tamburello: quando Grian tira fuori il tamburello, sai che sta per succedere qualcosa di grosso. È stato così anche questa volta. Al primo attacco di Boys in the Better Land, il brano più iconico della band, il pubblico è esploso in un’onda collettiva: le prime incursioni di crowd surfers, salti all’unisono, un vortice di energia che ha trasformato la platea in un corpo unico, pulsante.
Dopo Favourite, brano conclusivo di Romance, i Fontaines D.C. hanno lasciato il palco, ma nessuno tra il pubblico ha osato muoversi e lasciare il suo prezioso posto. Chiunque sapeva che mancava ancora una detonazione finale.
Infatti, una volta riemersi hanno affondato nel cuore del loro nuovo repertorio, proponendo qualche altro brano di Romance, tra cui la trascinante e ipnotica Desire. A chiudere il cerchio è stata la monumentale e spiazzante Starbuster dove, per l’occasione, Chatten ha invitato sul palco il carismatico frontman degli Shame, Charlie Steen, per scatenarsi un’ultima volta.
Dal vivo, Starbuster si rivela in tutta la sua potenza: un ibrido sonoro visionario, che intreccia le trame cupe del trip-hop, l’estetica nervosa dell’art rock e la forza martellante del rap-rock. Il brano richiama il massimalismo oscuro dei Massive Attack e la tensione verbale e ritmica dei Beastie Boys più nervosi. Grian Chatten non canta, declama. E lo fa in modo frenetico, ansioso, come se spalancasse un dialogo interiore pieno di spasmi emotivi e incubi lucidi. Starbuster è una crisi di panico tradotta in suono: claustrofobica, cinematografica e disturbante. Eppure, irresistibilmente magnetica.
I Fontaines D.C. sono una macchina live potente, emotiva, e in continuo movimento. Ti scuotono ma ti fanno anche oscillare lentamente. Basta un silenzio teso o un attacco di basso penetrante per cambiare l’atmosfera in un secondo. Anche nel silenzio, i Fontaines D.C. parlano forte. E quando decidono di dire qualcosa, quell’istante pesa. E resta.