Diverse generazioni di artisti e pubblico si sono incontrate al Parco della Confluenza per condividere una musica fatta di sovversione e sperimentazione. On stage, le suggestioni noise e lisergiche dei The Jesus and Mary Chain, headliner della serata, preceduti dal rock energico dei Fast Animals and Slow Kids, dai caustici Brucherò nei Pascoli e dagli Elephant Brain
Sono seduta su una panchina di Piazza Sofia, fuori dal Parco della Confluenza, aspettando l’apertura dei cancelli. Un manipolo di vecchiette abbarbicate sull’unica panchina all’ombra mi fissa, «cara, non ti dà mica fastidio stare al sole vero?», «No signora, si figuri» rispondo io, prossima a trasfigurarmi dal caldo. Finita per caso in questo happening di quartiere, le ascolto mentre parlano del Festival, dei biglietti di «Mammut» e di pantofole piumate e trafficano con ghiaccioli al limone. Provo a scansare Chanel, il chihuahua che ringhia cercando di mordicchiarmi gli anfibi – Chanel non sa che questi anfibi hanno visto guerre interstellari e resistono a tutto –.
18.30, mi avvio salutando le mie amiche (Chanel no) ed entro nella bolla musicale del Parco.
Una rapida occhiata al menu di questa sesta giornata di musica è sufficiente per capire – e qui prendo in prestito le parole di un noto torinese – che «a Torino non si scherza un cazzo». Sono due gli elementi che accomunano gli artisti in scaletta oggi: propensione per una sfrontata sperimentazione e una certa attitudine da enfant terrible.
Il programma non è un crescendo musicale, non c’è – come a volte capita in certi eventi – il gruppo d’apertura che ascolti distrattamente mentre sei in coda per il panino con la porchetta, oggi si entra a gamba tesa in medias res.
Ray Ban neri e Tuborg, salgono sul palco i Brucherò nei pascoli, primo gruppo a esibirsi oggi, e sono una scossa tellurica. Straight outta Nord di Loreto, il trio milanese composto da Davide, Stefano e Niccolò è una scoperta sorprendente: i loro pezzi sono caustici e sfrontati, molotov sonore che danno voce agli «impicci dei poveri cristi», raccontandoci del vuoto scintillante di una metropoli – Milano – in decomposizione, di «Pino dei palazzi» e di un turbocapitalismo che corre veloce relegando ai margini chi non ce la fa, «fuck caramba sarabanda». Temi come coscienza di classe e gentrificazione sono impastati in un crossover musicale sulfureo. Su Bar Adriana spruzzano birra su un pubblico ancora ristretto, ma agguerrito, «make some noise madafacca». Partono Renatino e Ghicci Ghicci e noi facciamo tutto il casino che possiamo, arrampicati sulle transenne, ce la ridiamo di gusto e balliamo.
«Etilici», tamarri, iconoclasti: dritti come un pugno. Ovviamente è amore a prima vista.
Il pit si affolla: è il turno delle spazzolate alt-rock degli Elephant brain, gruppo perugino che porta sullo stage un bel muro di chitarre graffianti, riff freschi dal retrogusto vintage e batterie incalzanti. Per raccontarvi chi sono potrei parlarvi dei due album all’attivo – Niente di speciale, disco d’esordio pubblicato nel 2020 e co-prodotto dalla band insieme a Jacopo Gigliotti, bassista dei Fast Animals and Slow Kids, e Canzoni da odiare, 2022 – o di un tour italiano che ha registrato diversi sold out ma è la perfomance di oggi che parla da sé. C’è un flusso d’affetto palpabile che scorre tra gli Elephant Brain e il loro pubblico, pubblico che sostiene ogni pezzo con cori (com’è stato in Anche questa è insicurezza, Scappare sempre e Weekend) dando un feedback costante alla band, e la band dal canto suo ringrazia: «se volete fare il pogo questo è il momento». Ed è così che il chitarrista prima e il cantante poi scavalcano le transenne e scendono nel pit, dando inizio a un girotondo che collassa in un minuto di pogo sfrenato. Polvere. «Un concerto non sarebbe un concerto senza di voi».
Li abbiamo evocati e loro arrivano: i Fast Animals and Slow Kids, capitanati dal carismatico Aimone Romizi, inaugurano la seconda metà di questa serata caldissima. Reduci da un tour nei teatri che li ha visti impegnati nel 2023 con un riarrangiamento per orchestra della loro discografia e da un boutique tour europeo per i dieci anni di Alaska e Hybris, i FASK sono fragorosi come un tuono e regalano a un pubblico carico e folto un’ora di live compatto e adrenalinico. D’altronde la dimensione live si attaglia perfettamente all’energia della band e alle capacità vocali e interpretative di Romizi che si riconferma un performer d’eccezione. In scaletta, pezzi più recenti, come il nuovo di zecca Come no, e successi storici come l’intimo Annabelle, le cui chitarre dolorose tratteggiano un paesaggio carico e testurizzato. In Dritto al cuore il palco diventa improvvisamente un dancefloor anni ’80, le luci rosse e il fumo scolpiscono la figura di Romizi, i visual sono essenziali ma efficaci. Verso la fine, c’è un rapido cambio nella formazione con Romizi alla batteria e Alessio Mingoli alla voce per un omaggio a Rock and Roll dei Led Zeppelin.
Sono proprio i FASK ad annunciare la prossima band in scaletta, gli headliner della serata, i The Jesus and Mary Chain, di cui si dichiarano grandi fan. È un momento importante questo perché, presentando i JAMC come una delle loro ispirazioni musicali, Romizi ha creato un trait d’union tra le due anime di un pubblico che diversamente sarebbe stato spaccato – giovanissimi fan dei FASK e meno giovanissimi fan dei JAMC –. In un certo senso, ha suggerito ai giovanissimi di restare e ascoltare il live di un gruppo che ha fatto la storia della musica. E i giovanissimi restano, incuriositi.
Fumo e luci verdi, poche note, quelle di jamcod, e il pubblico è catapultato in una Scozia notturna e urbana – la stessa che abbiamo imparato a conoscere attraverso lo sguardo allucinato di Mark Renton– guidato dalla voce di Jim Reid, una delle più magnetiche della storia dell’alt-rock. Padri putativi della shoegaze e enfant terrible dal piglio sanguigno – gli stessi che alla domanda «What’s the worst thing a band could go through?» hanno risposto «Maybe doing a tour with Coldplay» – Jim e William Reid tornano a calcare il palco del Todays dopo otto anni con il loro nuovo album, Glasgow Eyes, secondo lavoro discografico dopo la reunion dei fratelli, un evento che sembrava impossibile dopo la fragorosa implosione onstage di William alla House of Blues di Los Angeles nel 1998. Storie di fratelli bizzosi, «tell me ‘bout it» direbbe Noel Gallagher.
I JAMC tornano quindi con un album che – a mio avviso – mette a tacere tutte le malelingue più o meno blasonate che da decenni sostengono che dietro il torrente rumoristico noise della band, epitomato nel paradigmatico Psychocandy (1985), non ci sia altro che un banale tributo pop ai sixties. In Glasgow Eyes non troviamo il parossistico muro di feedback degli esordi che all’epoca ben si inseriva nel mood radicalizzante del post punk: i fratelli Reid decisero di abbandonare i feedback urticanti alla Velvet Underground già in Darklands in favore di nuove sperimentazioni – altro elemento tipico del post punk – e di un eclettismo che troviamo anche nell’ultimo LP. Tuttavia, se la dimensione noise risulta in secondo piano ascoltando la registrazione in studio, nel live di oggi si ripresenta prepotentemente. Mancano nel live le fresche incursioni elettroniche presenti nella versione in studio in cui invece si mescolano synth con diverse texture, che mi hanno ricordato a tratti l’elettronica più contemporanea dei Death in Vegas, ma anche i paesaggi sonori dadaisti dei Cabaret Voltaire o quelli minimal dei Kraftwerk.
La scaletta è una fluida panoramica sulla loro carriera: ci sono classici imprescindibili come Head on, Some candy talking e I Hate rock’n’roll, ma anche le rasoiate di In a hole, la morbidissima Just like honey – cantata assieme alla compagna Rachel Conte – e molti brani di Glasgow Eyes. Colpiscono, in particolare, le chitarre polverose e le suggestioni vagamente desert di Pure poor, ma è con gli impulsi ipnotici di Chemical animal che il pubblico trattiene il fiato. La figura scura e segaligna di Reid è avvolta da una nube di fumo, si percepisce la massa di capelli bianchi del fratello William nella penombra. Le chitarre essenziali – che mi hanno rimandato all’assolo drittissimo di chitarra di Boredom dei Buzzcocks costruito su due note – intessono una melodia lisergica, un rituale notturno officiato dalla voce suadente e sinistra di Reid. Per me il momento più bello di questo live. L’interazione con il pubblico è poca, ma rientra tutto perfettamente nel quadro di un understatement molto Brit, «I hope you enjoyed it as much as we did».
Mezzanotte meno qualche minuto, sono gli ultimi scampoli di musica prima di chiudere e ci si aspetterebbe una soffice ballad inchiostrata come Silver Strings. E invece no, i JAMC salutano la notte torinese con una durissima e ritmica Reverence, ma d’altronde non puoi chiedere a un enfant terrible di essere prevedibile. Quando pensi di averlo inquadrato, lui è già altrove, pronto a sorprenderti.