In occasione del 17 maggio, Giornata contro l’omolesbobitransfobia, raccontiamo le figure di Jennifer e della Fata dell’angolo, protagoniste queer delle opere di Annibale Ruccello e Pedro Lemebel in cui la musica diventa elemento drammaturgico. Attraverso l’immaginazione, l’amore e la presenza dissidente dei loro corpi, queste due figure trasformano il dolore in resistenza, abitano il margine con forza creativa e riscrivono il senso della lotta contro la violenza sistemica verso la comunità LGBTQIA+
«Un appartamento in penombra. Dalla luce del giorno che filtra dalle tapparelle dell’unica finestra, peraltro molto ampia, si intravede un notevole disordine. Indumenti femminili sparsi un po’ dovunque, un tavolo ingombro dei resti di una cena, un vaso con delle rose rosse appassite, un letto sfatto, rotocalchi popolari, trucchi, ecc. La luce esterna, per un involontario gioco delle tapparelle, pone in evidenza soprattutto una radio e il telefono, bianco. In lontananza, dal quartiere, giunge una canzonetta di Mina»
Così si apre la pièce teatrale Le cinque rose di Jennifer (1980), opera prima intensa sulla marginalizzazione delle soggettività queer di Annibale Ruccello, uno dei massimi esponenti della drammaturgia napoletana scomparso giovanissimo nel 1986 a causa di un incidente stradale.
Il teatro di Ruccello mescola tradizione orale campana, estetica camp omosessuale, musica, thriller, vaudeville e teatro da camera per proporre spesso questioni dall’importante risvolto sociale. Apertamente omosessuale, Ruccello affronta a più riprese e con declinazioni diverse il tema del desiderio queer, dell’identità e dell’invisibilità sociale: in questo piccolo capolavoro che è, appunto, Le cinque rose di Jennifer, l’autore mette in scena una protagonista gender non-conforming la cui vita è segnata dalla solitudine, dalla violenza sistemica della società e dal desiderio d’amore.
La storia si svolge nell’arco di una notte in un piccolo appartamento nel quartiere a luci rosse di Napoli. La protagonista è Jennifer, una donna trans sola e appassionata di musica che vive in questa piccola stanza, uno spazio chiuso e quasi soffocante, circondata da radio, dischi e ricordi.
Jennifer aspetta ossessivamente una telefonata dal suo amante Franco, fantomatico ingegnere genovese che tarda ad arrivare. Questo gesto apparentemente banale diventa il fulcro della sua esistenza: nell’attesa, la donna è costretta a districarsi tra diverse chiamate di uomini che hanno sbagliato numero o maniaci sessuali mentre ascolta la programmazione radiofonica di Radio Cuore Libero. Tra una canzone e l’altra, la speaker informa gli ascoltatori di una serie di delitti avvenuti nel quartiere a danno di alcune donne trans, uccise con un colpo di pistola in bocca e ritrovate con cinque rose rosse sparse sul cadavere. Dal momento che la dinamica è uguale in tutti i casi, gli inquirenti esplorano la pista di un possibile serial killer.
Jennifer riceve la visita di Anna, una vicina, anche lei trans, che si trattiene un po’ in casa e con la quale discute degli ultimi fatti di cronaca. Nel frattempo, continuano incessanti le telefonate anonime e disturbanti che alimentano la paranoia di Jennifer: ogni volta spera che sia Franco, la cui foto è incorniciata in un portaritratti sul comodino. Ma il portaritratti è vuoto e quando Anna solleva il velo dell’inganno di fronte al pubblico Jennifer si infuria, la manda via e riprende possesso della cornice. La donna intona allora le note di Verde luna, cover di un brano del 1941 di Rita Hayworth – Green Moon – ripreso da artiste come Angela Luce e Mina, amatissima da Ruccello. Ed è a questo punto che la situazione precipita: Jennifer capisce che Franco non arriverà mai e la finzione si rompe come uno specchio, spunta nel flusso drammaturgico una pistola. Buio. Luce. Dopo un’altra visita allucinata di Anna, Jennifer, di nuovo sola, abbassa le tapparelle, le sembra di sentire dei passi nel corridoio. Alza il ricevitore, Franco? Ma il telefono è muto, non c’è linea. In un crescendo claustrofobico, la donna esplode di rabbia e terrore, distrugge ogni cosa attorno a sé e, nel parossismo della scena, la radio continua a trasmettere impietosa Finché la barca va di Orietta Berti, creando quel tipo di glitch disturbante innescato dalla giustapposizione tra immagine violenta e musica disimpegnata, utilizzato anche da David Lynch in diversi film. Riappare improvvisamente la pistola, che non è – e non è mai stata – la pistola di un serial killer, ma quella di Jennifer, che la impugna e si suicida. «La casa in disordine, le solite cinque rose rosse sul corpo. La pistola. Indifferente, squilla il telefono».
Ruccello gioca sul filo della suspence, costruisce un sottile impianto narrativo che fino all’ultimo ci fa credere di essere in presenza di un pericoloso assassino, addirittura ci sembra di sentirne i passi, ma in realtà la rivelazione finale arriva brutale come un lampo: la violenza che serpeggia nell’opera è quella di una transfobia latente e sistemica che si manifesta nel sospetto, nella derisione, nell’invisibilizzazione. È la solitudine a uccidere Jennifer e tutte le altre donne del quartiere, una solitudine che si insinua e distrugge. Ma non solo: Jennifer è vittima di un ordine sociale che l’ha spinta ai margini, come dice Judith Butler, «in quelle zone invisibili e inabitabili della vita sociale» abitate da chiunque non risponda al paradigma sociale eternonormativo e rifugga la gabbia del binarismo e la categoria aprioristica del genere.
La musica, nel contesto di questa pièce, diventa un elemento fondamentale che sviluppa il flusso drammaturgico: la radio è sempre accesa, quasi fosse una presenza viva, umana, che accompagna Jennifer. Le canzoni diventano parte del dialogo con la protagonista perché rispondono ai suoi pensieri, li anticipano o li stimolano, fungendo da contrappunto emotivo alla narrazione. L’apparecchio è sintonizzato su Radio Cuore Libero, una stazione che trasmette musica leggera italiana e in cui si invitano le ascoltatrici a chiamare in radio per alcune dediche. È così che Annunziata, una donna trans, chiama e dedica Acqua di mare di Romina Power (o Romina Pauér) ad Alessandro: «da parte della sua Annunziata, che se lo ricorda sempre tanto, assieme a Giovanni, Andrea, Luigi, Michele, Renato, Gennaro e tutti i marinai dello Stromboli». Ecco che però, a un certo punto, la speaker in radio, Gloria, riceve la telefonata di Sonia, una donna trans che si confessa raccontando di quanto si senta sola, la sera, tra le sue quattro mura: «e certe sere, no, io urlo (…) e nessuno mi sente (…) io non so, insomma, come spiegarti, Gloria, ma io mi sento come nella plastica, mi sento divisa dagli altri da un muro di cellophane». È la stessa speaker a tagliare corto, infastidita dalla piega a suo parere greve che stava prendendo la conversazione.
Jennifer è una grande fan della musica popolare italiana, tant’è che all’interno del testo troviamo riferimenti a Paraviso e fuoco eterno di Ernesto Murolo – tra i protagonisti della canzone melodica napoletana che per Jennifer rappresenta una connessione con un’epoca romantica e idealizzata, dove il sentimento era più autentico e intenso – e a Testarda io di Iva Zanicchi, così come Mina, Ornella Vanoni, Milva e Patty Pravo. La musica struggente e i testi delle canzoni alimentano i sogni e l’immaginario anche sentimentale di Jennifer: è sulla voce suadente di Patty Pravo in La bambola che Jennifer, ad esempio, si spoglia allo specchio liberandosi degli abiti ed è invece con Mina che la donna si immagina come una sposa vestita bianco, regina di un sogno d’amore eteronormato e crudele.
Simile ma diversa è la Fata dell’angolo, protagonista romantica e malinconica di Ho paura torero, romanzo dell’autore queer cileno Pedro Lemebel ambientato in una Santiago del Cile stretta nella morsa militare di Pinochet. Anche la Fata vive ai margini, sola, ascoltando Lucho Gatica e Sara Montiel. La musica popolare romantica latinoamericana diventa un linguaggio emozionale attraverso il quale la protagonista esprime la sua identità: i riferimenti musicali si intrecciano alla narrazione amplificando i sentimenti della Fata e offrendo uno spaccato sulla sua interiorità.
Quando incontra Carlos, un giovane rivoluzionario, si innamora e si lascia coinvolgere in un piano sovversivo contro il regime, nella speranza – illusoria – che il suo amore per Carlos possa un giorno sbocciare. Ma se Jennifer viene schiacciata dal suo stesso desiderio, la Fata riesce invece a trasformare la propria vulnerabilità in una forma di resistenza, politicizzando il proprio corpo queer. La Fata di Lemebel occupa infatti lo spazio pubblico rendendo visibile il suo corpo dissidente in un contesto omofobo. Inoltre, nel suo rendersi memoria storica di un patrimonio artistico fatto di boleri e musica che rimanda a una semantica camp latinoamericana, la Fata diventa archivio di una memoria affettiva che scardina la narrazione nazionale machista e militarista proposta dal regime di Pinochet. Ma della musica della Fata e delle locas di Pedro Lemebel e di Camila Sosa Villada, scrittrice e perfomer argentina transgender, ne parleremo più avanti. Restate sintonizzat* su Radio Cuore Lib… ehm, su Polvere!
È importante, in occasione del 17 maggio, Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia, ricordare personaggi come Jennifer e la Fata dell’angolo, perché significa riconoscere non solo le ferite della marginalizzazione, ma soprattutto la forza radicale di chi abita il margine trasformandolo in linguaggio, memoria, desiderio. Le loro esistenze, attraversate da musica, amore e immaginazione, diventano forme di resistenza poetica e politica. Atti sovversivi.