Double Infinity, sesto album dei Big Thief e primo in trio, è un’eco rassicurante che si reitera e ricompone su se stessa. Un abbraccio psych-folk con velate tinte ambient che allevia e guarisce
Fin dal suo incipit, l’album ribadisce quanto la band non sia mai rimasta confinata nei limiti del folk tradizionale, ma abbia saputo muoversi in territori sempre più contaminati. Che un disco di folk contemporaneo si apra con un tappeto cosmico di sintetizzatori non è più un’eccezione, ma una testimonianza di come il genere, negli ultimi decenni, abbia imparato a farsi poroso, ad accogliere altri linguaggi e a ridefinirsi senza smarrire la propria matrice cantautorale.
Non è quindi strano che il ritorno dei Big Thief, dopo tre anni e dopo un’opera monumentale come Dragon New Warm Mountain I Believe in You, scelga di spostarsi proprio in questa direzione. Double Infinity non mira a reinventare radicalmente il linguaggio della band, ma ne amplia lo spettro con un lavoro più sottile e introspettivo, in cui la componente elettronica resta in controluce. Se i Big Thief si sono affermati come una delle realtà più significative del nuovo folk non è perché abbiano replicato formule, ma perché hanno saputo trattare la scrittura come un terreno di continua ricerca. La loro forza sta nel guardare avanti mantenendo il contatto con le radici, in una tensione che non si risolve mai, ma si rinnova di disco in disco.
A
l centro, come sempre, c’è Adrianne Lenker. Cantante e polistrumentista, la sua visione è la lente attraverso cui il gruppo filtra emozioni e idee. Nei suoi lavori solisti, così come in quelli collettivi, si percepisce una tensione particolare: un desiderio di intimità che non si chiude mai in sé stessa, ma che si apre al mondo, come se ogni canzone fosse contemporaneamente un diario personale e una lettera indirizzata a chi ascolta. Double Infinity conserva questa qualità, ma la declina in un contesto rinnovato: quello di una band che, per la prima volta, deve confrontarsi con l’assenza di uno dei suoi membri fondatori.
L’uscita di Max Oleartchik, bassista storico, ha segnato un passaggio delicato. Restare in tre significava ridefinire equilibri e linguaggi, trovare un nuovo modo di esistere come gruppo. La risposta non è stata chiudersi, ma spalancarsi: i tre hanno scritto un numero impressionante di brani, lasciandosi guidare dall’istinto, e hanno registrato a New York, in pieno inverno, coinvolgendo una costellazione di musicisti ospiti. Tra questi emerge la figura dello storico artista ambient Laraaji, le cui dronate di zither, l’uso evocativo dell’iPad e le vocalità eteree tessono orizzonti sonori che ampliano la profondità emozionale dell’album. Con lui, hanno partecipato anche voci come Hannah Cohen, June McDoom e Alena Spanger, che hanno prestato armonie oscure e sospese, registrando sotto coperte accoglienti per creare un’imboscata di intimità corale.
A loro si sono uniti musicisti ritmici e percussivi come Jon Nellen, Mikel Patrick Avery, e Caleb Michel, oltre a Joshua Crumbly al basso, Mikey Buishas alle tastiere e ai loop in tempo reale e Adam Brisbin alla chitarra. Tutti insieme, durante tre settimane di sessioni di registrazione live, hanno costruito un tessuto sonoro fluido in cui ogni intervento sembra nato dal gesto improvviso e condiviso: più che composizioni cesellate, sono improvvisazioni comunitarie, suoni che si intrecciano nel momento, producendo un disco che vibra di fluidità, apertura e la sensazione di un alveo emotivo più grande della somma dei singoli contributi. Questo slancio verso la cooperazione ha trasformato Double Infinity in un’esperienza musicale comunitaria, in cui la band non si nasconde dietro se stessa ma si lascia attraversare: l’essere attraversati diventa parte del suo suono.
Il paradosso più affascinante di Double Infinity è che, nato da una frattura e registrato in un contesto duro e spoglio, trasmette invece un senso di calore e conforto. È un album che accoglie e che avvolge, in cui anche i momenti più sospesi o enigmatici finiscono per avere un’aura rassicurante. Non ha la furia espansiva del lavoro precedente, né la tensione febbrile di album come U.F.O.F., ma sceglie una strada diversa, quella di un disco che non vuole stupire a ogni costo, ma che sa accompagnare, restituendo un senso di continuità.

I testi riflettono questa scelta. Spesso si costruiscono attorno a ripetizioni, a formule semplici che diventano piccoli mantra. Frasi che in un altro contesto potrebbero sembrare elementari qui assumono il valore di affermazioni universali, come se la band avesse deciso di sottrarre anziché aggiungere, concentrandosi sull’essenziale. È un linguaggio che lavora per cerchi concentrici: da un dettaglio minimo, da un’immagine quotidiana, si allarga progressivamente fino a toccare dimensioni più ampie. Il rapporto causa-effetto, ricorrente nei testi, suggerisce una volontà di ordine, una necessità di trovare un filo in mezzo al caos. In questo senso, l’album diventa quasi terapeutico: un luogo in cui l’insicurezza e la perdita vengono accolte e trasformate in suono condiviso.
Musicalmente, Double Infinity gioca sulla sottrazione e sull’improvvisazione. I brani si muovono tra linee minimali e aperture inattese, lasciando spazio al respiro e al silenzio. Alcuni pezzi si sviluppano come groove ciclici che si ripetono fino a diventare ipnotici; altri scelgono la via dell’etereo, con stratificazioni ambient che sembrano sospendere il tempo. In entrambi i casi, quello che colpisce è la capacità del gruppo di rendere tangibile la fragilità. C’è sempre la sensazione che tutto possa incrinarsi, che la musica stia in equilibrio precario. Proprio per questo la sua forza emotiva è amplificata.
Rispetto ai dischi passati, Double Infinity può sembrare meno ambizioso. Non ha la densità enciclopedica di Dragon New Warm Mountain I Believe in You, né l’impatto immediato di Two Hands. Eppure, questa apparente riduzione è in realtà una scelta di maturità. I Big Thief hanno dimostrato di poter costruire opere monumentali; ora scelgono di fermarsi, di respirare, di raccogliersi attorno a pochi elementi essenziali. Il risultato è un disco che non chiede di essere decifrato, ma vissuto: non un manifesto, ma un compagno di viaggio.
Questa qualità lo rende una delle aggiunte più forti alla loro discografia. Non perché alzi l’asticella della sperimentazione, ma perché consolida un percorso, riafferma un’identità che non ha bisogno di forzare per essere riconoscibile. Double Infinity è un album che accoglie chi ascolta con dolcezza, senza mai risultare banale. È meno un gesto di rottura e più un atto di continuità, e proprio in questo equilibrio risiede il suo valore.
In conclusione, Double Infinity è un disco che nasce dall’inquietudine e dalla perdita, ma che trova la sua forza nel conforto e nella condivisione. È un lavoro che sceglie la via della semplicità senza per questo rinunciare alla profondità; che trasforma fragilità in coesione; che rielabora la sottrazione come nuova forma di pienezza. I Big Thief, ridotti a tre ma ampliati da una comunità di musicisti, dimostrano che l’evoluzione non passa sempre per l’esplosione o per l’eccesso: può anche essere un processo di concentrazione, di ritorno all’essenziale. E in questa scelta, apparentemente controcorrente, c’è tutta la loro capacità di restare una delle band più importanti del presente.

