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Alta Felicità 2025 è amore, lotta e comunità

Dal 25 al 27 luglio, il Festival Alta Felicità ha trasformato ancora una volta Venaus e la Val Susa in un laboratorio a cielo aperto di lotta, cultura e condivisione. Nato e cresciuto dentro il solco delle battaglie NO TAV, il festival è molto più di una rassegna musicale: è l’espressione di una comunità resistente che dagli anni ’90 si allarga, si rinnova, si intreccia


Quella del Festival Alta Felicità è la storia di una promessa mantenuta e di una scommessa vinta, frutto di un ragionamento che aveva – e ha tutt’ora, alla nona edizione – l’obiettivo di restituire al mondo uno spaccato su una lotta condivisa che per proprietà intersezionale accoglie e si rende piattaforma di tutte le lotte che hanno a che fare con la resistenza NO TAV valsusina. Il Festival diventa quindi non solo lo spazio per parlare dei luoghi della devastazione della grande (e inutile) opera della linea Torino-Lione, ma per farli anche attraversare da transfemminismi, diritti umani, ingiustizie sociali e altre lotte e resistenze ambientali. Collegando il tutto con la festa, con la condivisione e l’orizzontalità, perché – come recita il motto del Festival – non c’è lotta senza festa e viceversa. Imbruttire e incattivire il dissenso, infatti, è una pratica reazionaria che ha come scopo quello di screditarne la potenza: affossarne l’entusiasmo facendo solo trasparire la rabbia è da sempre uno strumento repressivo atto ad allontanare potenziali complicità.

Il Festival, negli anni, ha costruito un immaginario fatto di gioia e radicalità, consapevole che la felicità può essere un atto rivoluzionario se condivisa, organizzata e resistente. È una felicità ostinata, che si manifesta in un campeggio libero dove le decisioni vengono prese collettivamente, in assemblee affollate di giovani e meno giovani che si confrontano alla pari, in cucine autogestite che sfamano migliaia di persone con cura e determinazione. È una felicità che si muove su strade spesso militarizzate, che cammina nei cortei, che grida slogan e canta canzoni in dialetti diversi, attraversando le generazioni e unendo le esperienze. La Borgata 8 Dicembre di Venaus diventa quindi un luogo dove la politica abbraccia la vita quotidiana, dove campeggiare, mangiare e fare attività insieme significa costruire legami, scambiarsi esperienze, coltivare alternative. E tutto questo è reso ancora più potente da una proposta musicale che riesce a coniugare memoria e futuro: gruppi storici militanti e giovani promesse si alternano sul palco in un equilibrio perfetto tra identità e innovazione.

Ma non soltanto nella musica: tutta la programmazione è attraversata da uno spirito che elimina logiche di paternalismo e di profitto preferendo invece una strada che accoglie e mette sotto lo stesso cappello e piano tante storie differenti, che per un motivo o per l’altro convergono su quella piana durante quel fine settimana di fine luglio ogni anno. Si alternano quindi momenti di marcia – opportunamente poi strumentalizzati da organi di potere per distogliere l’attenzione dal problema –, raccoglimento e confronto su tematiche varie in spazi di dibattito, ma anche semplice compresenza dettata da una comunione di intenti. Diventa così naturale e perfettamente in linea con le intenzioni del Festival vedere la presenza di figure importanti del dissenso come Patrick Zaki e Ilaria Salis che hanno restituito al pubblico la testimonianza di cosa significhi scontrarsi con la repressione, resistendo in prima linea. Oppure scorgere nella line up nomi di gruppi che si collegano ad altre valli e popoli che resistono, come quello della vicina Occitania. O ancora scoprire storie come, a titolo esemplificativo, quella della band marsigliese Bakir che – da una comparsata lo scorso anno al festival off (che da sempre accompagna le notti del campeggio, una volta spento l’impianto del main stage) – ha solcato in questa edizione il palco principale rendendo il pubblico partecipe del suo mondo fatto di trance e musica tradizionale magrebina. E, infine, vedere confluire nello stesso posto tante battaglie e collettive che puntellano il contemporaneo, testimoniandone l’esistenza anche solo con una maglietta o una bandiera, dal genocidio sionista che sta avvenendo in Palestina alla resistenza dei corpi non conformi.

Alta Felicità, nella sua struttura e nelle sue pratiche, è anche un esercizio di immaginazione politica: costruire un Festival che rifiuta sponsor, che non si piega alle logiche commerciali, che rigetta la narrazione mainstream, è già di per sé un atto politico. Ma è anche un esperimento concreto: i dibattiti, le assemblee, i laboratori, i momenti informali sono tutti strumenti attraverso cui ci si confronta su come costruire un mondo diverso, su come resistere senza cedere al cinismo, su come essere efficaci senza perdere la leggerezza, su come non smettere mai di desiderare, anche nei momenti più bui. Ed è proprio questo desiderio collettivo e indomabile che si respira ovunque durante il Festival: nei cori all’alba, nelle danze sotto la pioggia, nei sorrisi condivisi tra sconosciutə che diventano compagnə di lotta. Alta Felicità non è un luogo di consumo, ma di trasformazione. Ogni angolo racconta una storia di resistenza, ogni gesto è un frammento di futuro possibile. La montagna stessa, con la sua presenza viva e testarda, diventa complice: testimone di una lunga battaglia popolare, scenario di solidarietà, rifugio e trincea.

Alta Felicità, per tutti i motivi visti finora, è anche e soprattutto un esempio unico e la dimostrazione che un’alternativa alla logica del profitto e della gerarchia paternalista è possibile anche nel mondo degli eventi. Se la volontà di chi organizza è quella di far sentire le voci, si sceglie consapevolmente di rifiutare un sistema agendo dall’interno e fornendo strumenti di rivendicazione orizzontale che diventano casse di risonanza e intersezionalità. Ciò che resta, una volta smontata l’ultima tenda e caricato l’ultimo zaino sulla navetta di ritorno, non è mai silenzio anche se i prati non sono più accompagnati da quella vivacità che ha contraddistinto le settantadue ore precedenti. La presenza resta, in attesa e vigile, preparata a resistere e a far sentire che c’eravamo, ci siamo e ci saremo.

 

articolo in collaborazione con Mattia Macrì e Marco Berton
foto a cura di Alessandro Aimonetto, Luca Morlino, Natalia Melotti, Michela Talamucci

Luca Parri

34 anni tra design, giochi, fumetti, cinema e musica con sempre le stesse prerogative: amore per l'underground, approccio geek, morale punk e gusti snob.

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