12 giugno 1993. L’URSS è crollata da un anno e mezzo e i rockettari finlandesi Leningrad Cowboys si esibiscono in Piazza del Senato a Helsinki, accompagnati dal Coro dell’Armata Rossa, in una terra che è sempre stata neutrale alla Guerra fredda. Aki Kaurismäki riprende uno degli spettacoli più significativi del Novecento. Un evento che si è fatto simbolo di riconciliazione storica e culturale: un sogno impossibile che solo la musica avrebbe potuto realizzare
Nonostante i conflitti attuali e le tensioni geopolitiche che vedono coinvolti Stati Uniti e Russia, NATO e CRINK, ci possano far immaginare di trovarci nel pieno di una nuova Guerra fredda, la Guerra fredda vera, quella che invece possiamo storicizzare per ragioni temporali, quella dal termine coniato dal politologo Walter Lippmann, finisce nel 1991, quando l’Unione Sovietica si dissolve e le repubbliche del blocco orientale ottengono l’indipendenza. È dal quel momento, da quella data, che il divario politico, economico e culturale si assottiglia. Il fatto è evidente fin da subito soprattutto per l’ultimo punto.
Parlando, per esempio, di musica, quella di stampo occidentale, amata pressoché in tutto il mondo, anche a Est, era osteggiata dai regimi sovietici, che obbligavano gli appassionati a reperirla con metodi pirati quali i rëbra. E dopo il crollo dell’URSS ci è voluto un attimo perché i confini si rompessero. Basti pensare all’impatto enorme dell’edizione del Monsters of Rock 1991, organizzata proprio a Mosca: non era passato neanche un anno e una folla di un milione e mezzo di persone – tra cui orde di militari russi scapigliati, in divisa sbottonata – era riunita nell’area dell’aeroporto di Mosca–Tušino per sentire AC/DC, Pantera e Metallica, queste ultime due band all’apice della loro popolarità.
Se però quel concerto storico – uno degli eventi musicali più importanti del secolo scorso – a primo impatto pare quasi come una massiccia dimostrazione di potere e predominio occidentale, con la tipica arroganza del vincitore che flette i muscoli sul cadavere dello sconfitto, lo stesso non si può dire di un altro evento che avrebbe avuto luogo un anno e mezzo dopo, a Helsinki, in Piazza del Senato.
La Finlandia è un paese geograficamente a metà strada tra Est e Ovest. Confinante con la Russia, nonostante la neutralità, ha subìto una forte influenza da parte della potenza sovietica. Influenza che tuttavia non le ha impedito di coltivare un legame coi Paesi occidentali, fino a entrare nella NATO solo due anni fa. Culturalmente parlando, la Finlandia è una sorta di ponte tra le due culture e il cinema di Aki Kaurismäki ha rappresentato questo aspetto al meglio.
Aki Kaurismäki è forse il regista finlandese più popolare al mondo. Classe 1957, attivo dai primi anni ’80, amato nei principali festival europei, è un autore dallo stile riconoscibilissimo. Il suo cinema minimale, scarno, essenziale, al servizio di storie di emarginati, a metà tra il malinconico e l’umoristico, ha definito l’idea stessa che abbiamo della Finlandia e dei finlandesi. Grande appassionato di rock ‘n’ roll, nel 1989 esce il film Leningrad Cowboys Go America, che vede protagonista una band fittizia creata da Kaurismäki stesso: i Leningrad Cowboys.
Già dal nome possiamo intuire qualcosa. La band è la rappresentazione di una satira sulla cultura pop occidentale e i suoi contrasti con quella dell’Est espressa attraverso la storia di un gruppo di musicisti bizzarri e disadattati, che parte per l’America in cerca di fortuna. «Andate in America, là mandano giù ogni stronzata», si dice a inizio film. L’opera di Kaurismäki è divertentissima – se si considera l’umorismo grottesco da cinema muto che contraddistingue lo stile del regista finnico –, e i Leningrad Cowboys, con il loro look stravagante, i loro ciuffi a unicorno e le loro scarpe a punta, sono una parodia capace di unire Oriente e Occidente nonostante le evidenti differenze politiche e culturali. Ed è un film uscito proprio lo stesso anno della caduta del Muro di Berlino.
Torniamo, però, all’evento in Piazza del Senato di Helsinki un anno e mezzo dopo il crollo dell’URSS. È il 12 giugno 1993, e una folla di 70.000 persone è riunita per un concerto dei Leningrad Cowboys, che sul palco non sono soli. Con loro c’è un ospite decisamente ingombrante, se si parla di spazi: il Coro dell’Armata Rossa, un ensemble di oltre 150 elementi, composto da un complesso di voci maschili, un’orchestra e un corpo di ballo. Ufficialmente incaricato di intonare e rappresentare brani del folklore russo, il Coro è ancora attivo anche dopo il ‘91. La band finlandese porta cover riarrangiate di alcune delle canzoni pop/rock americane più famose di sempre, da Knockin’ On Heaven’s Door a Delilah, da Let’s Work Together a Sweet Home Alabama.
Denominato Total Balalaika Show, il concerto è un audace dialogo folk/pop/rock ‘n’ roll tra queste due entità: a volte ci si immagina a una parata sulla Piazza Rossa di Mosca, altre nelle distese desolate del sud degli USA, con una spiga in bocca a bordo di un trattorino. In un clima di festa, tra canti e danze, l’evento rappresenta un momento di catarsi collettiva, in cui due mondi storicamente agli antipodi si intrecciano e danno vita a uno spettacolo totalizzante, in cui il motivetto dell’inno dell’Unione Sovietica interferisce nella performance di Gimme All Your Lovin’ creando una fusione perfetta. È un momento di distensione tra culture: non è l’una che prevale sull’altra, ma la voglia di entrambe di stare Happy Together, come la canzone dei Turtles. Il frontman dei Leningrad Cowboys la canta in duetto con uno dei principali interpreti del Coro dell’Armata Rossa, un baritono che probabilmente aveva a che fare con la lingua inglese per la prima volta, ma che si diverte come forse il suo ruolo non glielo aveva mai consentito, insieme agli altri membri del Coro, che anche quando non cantano seguono il flusso rock ‘n’ roll della band finlandese.
In alcuni momenti che vedono protagonisti i membri dell’orchestra, vengono eseguite e performate anche canzoni tradizionali russe come il Canto dei battellieri del Volga, risalente al ‘500, la Canzone dei campi, di chiara ispirazione sovietica, Occhi neri, da una poesia popolare, e ovviamente la Kalinka, con la sua progressiva accelerazione di bpm e la sua tipica danza dalle gambe volteggianti. Il tutto con un piccolo busto di Lenin che osserva lo spettacolo consapevole che probabilmente non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere.
Aki Kaurismäki cura la regia del concerto col suo stile secco e privo di virtuosismi fini a sé stessi. Le inquadrature sono per lo più fisse; ogni tanto qualche panoramica sulla Piazza del Senato immortala il fervore che il pubblico stava provando per quello che già all’epoca si era capito essere un evento storico.
I finlandesi che vissero l’esperienza ricordano il Total Balalaika Show come un evento quasi magico, in cui lo storico momento di transizione li fece pensare per un attimo alla possibilità di respirare una sorta di pace, vibrando di ottimismo. Quando il film-concerto uscì al cinema divenne subito un successo enorme e le copie fisiche che uscirono successivamente andarono a ruba, rendendolo un oggetto di culto. L’ennesimo – quanto sempre sorprendente – caso in cui la musica che unisce vince sulla politica che divide.

