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Rave Inc.: Sónar, Boiler Room e la fabbrica del dissenso addomesticato

Il neoliberismo ha ormai inghiottito la cultura rave, rendendola soltanto un canone estetico svuotato della sua componente sovversiva. Connivenza, cooptazione, profitto, mercificazione e logiche di mercato hanno davvero sostituito capannoni abbandonati e subwoofer?


Che l’estetica possa diventare merce non è cosa nuova, nell’Occidente neoliberale. Dal punk ridotto a mero canone – completamente depotenziato e annullato nella sua componente anti-sistema – alle lotte contemporanee trasformate in terreno fertile per capitalizzare, tutto viene assorbito. Come se ogni dissenso potesse essere convertito in prodotto, ogni forma di rifiuto estetizzata e rimessa sul mercato, pronta per essere venduta a un pubblico creato ad hoc.

La cultura dei rave, in questo senso, non fa eccezione: da movimento di riappropriazione momentanea di spazio – la zona temporaneamente autonoma di Hakim Bey – la parola stessa ha subito uno slittamento semantico profondo. Non più manifestazione spontanea di autodeterminazione e rifiuto radicale dello status quo. Oggi il termine rave segna sempre più spesso un dispositivo estetico confezionato, un simulacro di ribellione prodotto da chi domina la filiera del profitto, una struttura organizzativa che riproduce potere economico e logiche di classe. La creazione di nuovi bisogni viene soddisfatta solo da chi presidia i vertici della piramide culturale e finanziaria.

La perdita totale di orizzontalità ha portato questa corrente lontano dai free party, da quei contesti che non solo le appartengono storicamente, ma che ne fondano anche il senso politico. Dove c’è guadagno, il capitale coopta e corrompe, piegando al proprio interesse anche ciò che nasce come risposta antagonista. Ma non solo: il rave, negli ultimi vent’anni, viene sempre più percepito come atto performativo e individuale, depotenziato nella sua portata collettiva. Si perde così quella componente situazionista, estemporanea e irripetibile, in favore di un costrutto fabbricato, replicabile, reiterato. In una parola: spettacolarizzato. Come scriveva Guy Debord, tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista: «Tutto ciò che una volta era vissuto direttamente si è trasformato in una rappresentazione».

Si potrebbero citare tantissimi esempi per spiegare come ha agito questo appiattimento della cultura rave, come il capitale ha lavorato per ridurre il rave a semplice modalità di consumo. Ma tra tutti, forse il più emblematico è la prominente bianchezza che accompagna la dimensione contemporanea di questo termine. La techno è stata completamente separata dalla sua radice afroamericana, riportando tutto solo ed esclusivamente alla sua evoluzione centro-europea – tedesca e berlinese, in particolare – tagliando fuori la cellula nera che ha generato tutto ciò che le è stato successivo. Come scrive DeForrest Brown Jr., conosciuto anche con il suo nome d’arte Speaker Music e autore di Assembling a Black Counter-Culture: «La techno è musica nera. Lo è sempre stata. La cancellazione della sua nerezza da parte della club culture europea non è una lettura erronea ma un progetto coloniale».

Le sacche di resistenza a questa narrazione esistono, e si stanno riorganizzando: artistə, collettive e micro-scene che ricostruiscono genealogie anticoloniali e transnazionali, ma vengono sistematicamente marginalizzate. O, peggio, vengono rappresentate secondo logiche funzionali a un’estetica vendibile. Una diversità caricaturale, utile solo ad arricchire la vetrina, mai a mettere in discussione chi possiede il negozio. Una varietà feticizzata, atta spesso a spettacolarizzare e lavare la coscienza, ma di fatto sempre pensata per un pubblico ristretto che ha bisogno di sentirsi culturalmente e socialmente impegnato mentre spende e olia gli ingranaggi del sistema.

Questo meccanismo, poi, diventa particolarmente subdolo quando viene comparato a ciò che è successo negli anni a livello normativo riguardo ai rave e alla cultura a essi collegata. L’infame Criminal Justice Act del governo Blair del 1994 o il fallimentare Decreto Anti Rave emanato dal governo Meloni trent’anni dopo ci insegnano che le istituzioni e il potere politico ed economico vedono sempre questi momenti come sovversione da osteggiare. Ciò rende ancora più evidente che quando c’è una partecipazione diretta o indiretta dei vertici economici in contesti che si avvicinano a questi mondi, è in atto un tentativo di indebolimento delle potenzialità antagoniste, in favore di una economicizzazione delle stesse.

In questo quadro, a titolo esemplificativo, possiamo inserire una notizia recente che ha generato scalpore diffuso e un’indignazione piuttosto capillare, ma che – di fatto – è perfettamente inscrivibile nel disegno di massima che il capitale sta promulgando intorno a questa subcultura. La recente acquisizione da parte del fondo di investimento americano KKR – tra i principali finanziatori dell’Israeli Defence Force e di entrambe le campagne elettorali di Donald Trump – del colosso dell’intrattenimento legato alla musica elettronica Superstruct certamente provoca disgusto in una fetta di pubblico, ma è anche sintomo e conseguenza di un progetto ben più ampio, in cui il sistema neoliberale si è insinuato da tempo e su più livelli.

A rendere vendibili, commerciabili, legati al consumo di pochi e di fatto solo esteticamente vicini all’idea sovversiva alla base della cultura rave non è stata questa recentissima acquisizione. Il progetto ha radici più profonde, che nel tempo hanno fagocitato e reso nulle le potenzialità politiche di questi eventi, trasformandoli in prospettive di profitto costruite su pubblici sempre più specifici e con bisogni sempre più precisi e creati ad arte. Sziget, Boiler Room, Sónar, Monegros, Elrow e Field Day erano contesti di capitalizzazione ben prima dell’ingresso di KKR e delle implicazioni dirette nella sovvenzione del genocidio gazawi. Quell’acquisto è solo una conseguenza, un esito inevitabile: perché le condizioni iniziali non potevano portare altrove.

Certo, i boicottaggi e le dichiarazioni di artistə possono fare davvero la differenza e vedere personalità influenti come Arca dichiarare l’annullamento di ogni progetto legato a Superstruct crea dei precedenti importanti. Resta però da ragionare sul perché sia successo che fondi di investimento come KKR si siano insinuati in questi contesti e quali siano i motivi per cui ci vedono degli affari.

«Il capitale si appropria del sogno situazionista di un’arte integrata alla vita per rivenderlo sotto forma di esperienze estetiche a pagamento. È questa la sua vittoria più totale».
McKenzie Wark, A Hacker Manifesto

La vittoria del capitale sulla cultura rave, allora, non si consuma nel momento in cui la compra, ma nel momento in cui riesce a renderla desiderabile come prodotto. È lì che avviene lo svuotamento più profondo: non quando l’immaginario antagonista viene apertamente represso, ma quando viene trasformato in oggetto di consumo, normalizzato, reso appetibile e vendibile. Quando la ribellione non fa più paura ma viene confezionata in modo da piacere. Il dispositivo neoliberale non ha bisogno di censurare la cultura rave per disinnescarla: gli basta promuoverla nel formato giusto, confezionata per il pubblico giusto, incastonata in una filiera che produce senso solo in funzione del profitto. È così che il rave smette di essere pratica collettiva e sovversiva, e diventa un’estetica, un’esperienza, un brand. La cooptazione non è un errore del sistema: è il suo meccanismo più sofisticato.

Luca Parri

34 anni tra design, giochi, fumetti, cinema e musica con sempre le stesse prerogative: amore per l'underground, approccio geek, morale punk e gusti snob.

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