Tratto dall’omonima opera rock degli Who, Quadrophenia è un trattato sociologico perfetto per inquadrare la subcultura mod degli anni ’60 attraverso la storia di Jimmy, che tra droghe e risse conoscerà l’eccesso e verrà a patti con l’inevitabile caducità del movimento stesso
«Tra tutti i film che hai visto in vita tua, qual è il tuo preferito?»
«Quadrophenia»
Così Liam Gallagher rispondeva a una delle 73 Questions del noto format video di Vogue. L’intervista risaliva al 2019 e in quell’anno la pellicola diretta da Franc Roddam compiva 40 anni di vita. E non stupisce la scelta del frontman degli Oasis, perché la musica sua e del fratello Noel non sarebbe quella che è non solo, ovviamente, senza i Beatles, ma anche senza i The Who. In generale, non sarebbe la stessa senza quell’idea sociale ed estetica, british fino al midollo, che il film – tratto dall’album/opera rock che Pete Townshend e soci fecero uscire nel 1973 – ben manifestava sotto ogni aspetto.
Parliamo del movimento mod, dunque dei giovani scalmanati della working class inglese a metà degli anni ’60: ragazzi ben pettinati, vestiti col parka o in abiti sartoriali e, soprattutto, fissati con gli scooter italiani, in particolare Vespa e Lambretta – spesso agghindate e personalizzate con numerosi specchietti retrovisori –. In quegli anni, essere mod voleva dire identificarsi con uno stile di vita giovane, ribelle, schizzato, anfetaminico, in perenne conflitto con le giacche di pelle e le motociclette di ispirazione americana anni ’50 dei rockers. L’incontro tra membri delle due bande avrebbe portato inevitabilmente allo scontro e alla rissa, tra cui quella più grande e nota – considerata dai mass media l’apice dei contrasti tra le due subculture – che si svolse sulla spiaggia di Brighton.
In Quadrophenia c’è tutto questo e molto altro. Il film traduce sullo schermo la storia già narrata nell’omonimo doppio disco degli Who, i quali dopo Tommy (1969) – anch’esso trasposto al cinema da Ken RusselI nel 1975 – tornano con un concept album, questa volta avente come tema proprio l’essere mod, presentandoci una sorta di documento antropologico su una delle subculture più influenti della storia del Regno Unito, protagonista di diversi revival negli anni a venire. È la storia di Jimmy, interpretato da un giovane Phil Daniels, noto ai più come colui che farà da voce narrante nella celeberrima Parklife dei Blur. Parliamo del mod per eccellenza, ostico verso i propri genitori – per i quali il rock ‘n’ roll è solo un rumore assordante che travia le menti dei giovani –, volgare e iperattivo; lo psichiatra sostiene che sia affetto da schizofrenia. Jimmy assume anfetamine e con i suoi amici, tutti mods, si organizza per averne e assumerne sempre di più. Le mura della sua camera da letto strabordano di foto di modelle nude e spezzoni di articoli di giornale sugli scontri tra mods e polizia.
«Io sono Jimmy e non voglio essere uguale a nessun altro. Ecco perché sono un mod». In una frase – e in una canzone, la prima del disco e del film, The Real Me – è possibile riassumere Quadrophenia e il suo obiettivo, che non è esaltare il modello giovanile dal quale è nata una delle band più iconiche della storia del rock, ma analizzare la messa in discussione dello stesso movimento. Infatti, per gli Who, all’inizio degli anni ‘70 quell’idea giovane e sfrenata era un qualcosa che apparteneva al passato; l’isteria giovanile di My Generation era ormai un ricordo. Pete Townshend – che avrebbe scritto e composto Quadrophenia interamente da solo, riflettendo sulla sua stessa condizione di ex-mod – si era innamorato del sintetizzatore ARP 2500 e aveva iniziato ad abbracciare una concezione più sofisticata della musica e dell’album inteso come opera narrativa, in cui le canzoni potevano essere il motore pulsante di una storia. Perché sappiamo tutti quanto si cresca e si cambi dai 20 ai 28 anni.
E dunque ecco che, come Pete, anche Jimmy inizia a capire che forse è arrivato il momento di cambiare. Perché non è possibile essere obbligati a restare fermi e tacere quando un tuo amico di vecchia data, che però hai scoperto essere un rocker, viene pestato a sangue dai membri del tuo branco, quelli che socialmente parlando sono i tuoi amici solo perché per convenzione ci si aspetta che debbano esserlo; perché non è possibile che la ragazza che pensavi di amare ti tradisca con un altro sostenendo: «tra noi è stato solo un gioco»; perché non è possibile che Ace – nel film interpretato da Sting –, uno dei leader del movimento, il più cool della compagnia, dopo l’arresto causato dalla grande rissa a Brighton si tradisca finendo a fare il facchino in un hotel sulla costa di quella stessa città; perché tra botte e pasticche probabilmente i mods sono destinati ad autodistruggersi. Per Jimmy tutto ciò rappresenta il tramonto di un’illusione. E allora bisogna fuggire e distruggere i segni di questa vita che sente potrebbe non appartenergli più. A simboleggiare la fine, uno scooter – quello di Ace, che Jimmy ruba in preda alla rabbia e alla delusione – gettato dalla cima di una scogliera alta più di 100 metri, sulle note di I’ve Had Enough.
Quadrophenia è – specialmente per i giovani inglesi – un cult intramontabile, che racconta la disillusione verso un ideale che, come tanti altri prima e dopo, era destinato a bruciare in fretta, come tutto ciò che rappresenta una rottura all’interno del sistema. La narrazione non è vittima della nostalgia, tutt’altro. È un film che fa assaporare la pioggia, lo sporco, il grigio, tuttavia senza negare l’importanza che il movimento ha avuto nella formazione di una generazione. Nel confronto con le subculture giovanili più recenti può colpire constare come, nonostante un certo background sociale fosse alla base delle personalità dei mod, tutto partisse comunque dalla musica. Una musica intesa come collante tra gli individui. Come macchina di unione. Perché forse – anzi, sicuramente – un giorno tutto questo finirà, forse ci si allontanerà, ma non sarà mai colpa della musica che ci ha fatto ballare e sentire vivi.

