Quando si pensa al Messico e alla musica sono due le immediate associazioni che si fanno: da un lato – complice anche lo zampino della Disney – i mariachi, con i loro grandi baffi, gli enormi sombreri e strumenti che sembrano la versione film d’animazione di quelli a cui siamo abituati; dall’altro, la canzone interpretata da Jannacci prima e da Giuliano Palma poi: Messico e nuvole, in cui il Messico diventa la faccia triste dell’America. In realtà, l’ampiezza di questo spettro di possibilità è quasi troppo ridotta per contenere tutto quello che significa la musica per questo Paese. La musica, in Messico, è una componente imprescindibile della cultura popolare, anche e soprattutto perché è da sempre al contempo molto amata e molto odiata. E spesso rappresenta una forma di lotta e un mezzo di protesta, oltre che di vita
Il sentiero che porta al panorama musicale del Messico è lungo e tortuoso, ma lo spirito ribelle e carbonaro della musica messicana rende impossibile non iniziarlo proprio dalla sua capitale. Siamo a Città del Messico, in una viuzza larga non più di tre metri alle spalle dello Zocalo, la piazza principale della città, tra un negozio di acchiappasogni e un bagno pubblico. Qui, c’è un buco che vende chincaglierie da turisti al fondo del quale un uomo della sicurezza si impone a copertura di una scala di cemento.
La seconda rampa di scale di questo palazzo disabitato è sorvegliata da un cesso che può far dubitare della qualità della serata, ma una volta raggiunto l’ultimo piano, i dubbi scompaiono. Il 16 di Via Tabaqueros a CDMX è infatti il luogo che ospita la serata domenicale più esclusiva della città, nel locale all’omonimo indirizzo, il cui spirito carbonaro è la versione fashion di quello di Las Vegas. almeno considerando il colore degli adesivi che ricopriranno tutte le fotocamere dei cellulari degli avventori.

Davanti al bancone che distribuisce le mezcalite di ordinanza, i dj si alternano alla console immersa in mezzo a una giungla urbana. Sullo sfondo si staglia la Torre Latinoamericana, grattacielo simbolo della città, costruito su quello che una volta era il serraglio dell’imperatore azteco Montezuma II. Proprio in quel serraglio musicale del Sunday Sunday, la domenica pasquale è terreno di musica house in uno spettro che va dalle linee vocali soul e i ritmi più moderati della deep house a quelli più sincopati della UK garage. Tutto quello che rimane da immortalare non è altro che l’intensità della luce che cala con il calare del sole alle spalle della Torre Latinoamericana, creando il naturale filtro delle feste messicane.
La desolazione che pervade Via Tabaqueros a fine serata ricorda uno dei più cupi periodi della storia musicale del Messico, vittima sacrificale: la musica rock. I primi approcci a questo genere arrivano infatti con gruppi come Los Locos del Ritmo (i pazzi del ritmo), che traducono e reinterpretano i grandi successi anglofoni del genere. Questo approccio mimico alla musica dei ribelli arriva all’apice nel 1971, quando i messicani scoprono finalmente Woodstock. Folgorati dalla potenza del festival, massiccio e trasudante di libertà, non riescono a farne a meno.
L’11 e il 12 settembre, a Tenantongo, quella che doveva essere una gara automobilistica con accompagnamento musicale diventa il Festival de Avándaro. Simbolo, nel bene e nel male, della controcultura giovanile messicana, il festival – in cui nessuna gara automobilistica ha mai davvero avuto luogo – ospita 18 gruppi di rock psichedelico, blues-rock e folk-rock e centinaia di migliaia di giovani. Nonostante si parli di un periodo ben lontano dall’epoca delle fake news, la stampa e le autorità lo descrivono come un inferno di droga e nudità, forse per aver preso un po’ troppo sul personale decine di migliaia di persone che cantano «we got the power».
Da quel momento in poi, il governo del presidente Luis Echeverría inizia una serrata censura del rock sui media nazionali e una repressione culturale degli eventi dal vivo nota come Avandarazo. I figli del rock messicano iniziano un periodo di clandestinità, suonando in quelli che vengono chiamati Hoyos Funkies o Funky holes, scantinati di fabbriche o luoghi decadenti in cui godersi la musica dei ribelli sfuggendo dagli scontri con le forze dell’ordine.
Si devono attendere gli anni ’80 per assistere all’uscita dei rockettari messicani dagli anfratti in cui si stavano nascondendo e vederli finalmente tornare alla ribalta. Alle politiche di nazionalizzazione avviate da Echeverría segue la crisi del debito pubblico dovuta principalmente ai prestiti esteri e al crollo del prezzo del petrolio. Il nuovo presidente, Miguel de la Madrid, avvia in tutta risposta politiche neoliberiste accompagnate da una maggiore liberalizzazione anche dei media. Della situazione approfittarono etichette come la BMG Ariola e radio come la Espacio 59, che fanno nuovamente circolare il rock messicano, nel frattempo entrato nella sua nuova fase denominata Rock en tu idioma (rock nella tua lingua), con gruppi come Caifanes e Manà.
Ormai inarrestabile, negli anni ’90 il rock inizia a mescolarsi ad altri generi, come accade con i testi rap-rock politici dei Molotov, band figlia della capitale Città del Messico e nota per la critica nei confronti degli Stati Uniti. Emblematico il caso di Frijolero, termine dispregiativo utilizzato dagli Yankee di frontiera per identificare i messicani, che espone il razzismo di quelle zone e gli stereotipi legati ai propri connazionali utilizzando imprecazioni tipicamente messicane come il versatile verbo chingar, ritrovato in chinga tu madre (fanculo a tua madre), o scimmiottando il suono di un americano che tenta di parlare spagnolo.
Nonostante non sia stato soggetto di una truce censura come il rock, anche il corrido tumbado ha avuto i suoi problemi con l’attuale governo messicano guidato da Claudia Sheinbaum, a causa soprattutto delle tematiche ricorrenti nei suoi testi che glorificano violenza e narcotraffico. Fondando le sue radici nel tradizionale corrido, una ballata narrativa che canta storie epiche di eventi e personaggi famosi in una sorta di giornalismo popolare pre-Tik Tok, il corrido tumbado è oggi il genere più popolare in Messico. Agli elementi della tradizione questo genere lega influenze trap, hip hop e raggaeton, con storie legate alla vita urbana e al crimine organizzato. Artista di spicco di questa corrente è sicuramente Peso Pluma, il secondo autore latino più ascoltato al mondo su Spotify nel 2024, dopo Bad Bunny.
L’unica forma musicale che non ha mai avuto limitazioni da alcun governo in Messico è sicuramente quella dei mariachi, forse una delle poche eredità positive del periodo coloniale europeo. La musica, infatti, è sempre stata centrale nella cultura indigena messicana, ma gli strumenti principali erano conchiglie, flauti e percussioni. Gli spagnoli, oltre ad armi da fuoco e malattie, hanno importato anche chitarre, violini, strumenti a fiato e ottoni. Insieme agli strumenti, gli spagnoli hanno introdotto anche il concetto di ensemble musicale. Come accaduto per il rock, anche in questo caso la forte identità culturale del paese ha preso in mano la situazione, trasformando semplici strumenti musicali in un fenomeno che dal 2011 è patrimonio Unesco.
A partire dall’utilizzo imprescindibile degli strumenti a corda come fattore comune, ciascuna regione ha poi declinato lo stile musicale in base alle proprie necessità espressive, dando vita a vari generi tra cui son jalisciense, canzone ranchera, corrido, bolero e valzer messicano. Inizialmente nata nelle regioni rurali per celebrare i momenti di festa, verso la fine del ventesimo secolo la musica tradizionale messicana cambia veste. Inizia a indossare il charro – la tipica divisa dei mariachi – e, a causa delle diffuse condizioni di povertà e disoccupazione, si sposta a Città del Messico, dove sono in molti di più ad avere qualcosa da festeggiare.
Dal 1923 infatti, in quella che dopo la rivoluzione è stata rinominata Piazza Garibaldi, c’è il Tenampa, una vera e propria istituzione che ha contribuito a rendere la piazza quello che è oggi, ovvero una sorta di mercato musicale in cui gruppi di mariachi, norteños e banda vengono assoldati per serenate romantiche, feste de la quinceñera o per allietare gruppi di ubriachi esentati da considerazioni ponderate sul budget per colpa della tequila.
A caratterizzare i mariachi rispetto alle altre formazioni musicali è la predilezione per gli strumenti a corda, come chitarre, violini e soprattutto il guitarrón, un basso acustico con un corpo molto rotondo e corde di grosso calibro che produce note potenti e profonde; e la vihuela, una chitarra acuta più piccola della tradizionale e con sole cinque corde, tipica della tradizione messicana. Oltre alle trombe, eredità del jazz dei primi del Novecento e spesso presenti in coppia, la voce è un elemento essenziale.
Tra i generi musicali spesso interpretati dalle formazioni di mariachi c’è la musica ranchera, simbolo dei contadini rivoluzionari contro il regime di Porfirio Diaz agli inizi del XX secolo, durante il quale la ricchezza nel paese si era concentrata nelle mani di pochi lasciando la parte rurale del paese in povertà.

Il tema principale della canzone ranchera è l’amore – declinato sia in termini romantici che patriottici – e una delle sue principali interpreti è Chavela Vargas. Simbolo del carattere indipendente e imprevedibile dei messicani, la canzone ranchera nasce in realtà in Costa Rica e viene naturalizzata messicana perché tanto «i messicani nascono dove vogliono». Trasferitasi in Messico appena maggiorenne per cercare di sfondare nella fiorente industria cinematografica e musicale del paese, viene notata nei locali della capitale da José Alfredo Jiménez, uno dei più grandi autori del genere.
Inizia così una lunga amicizia basata sulla comprensione reciproca di una certa idea di musica e sull’alcolismo. Chavela Vargas capisce infatti nel profondo i testi di Jimenez, ma li stravolge nell’estetica e nella forma. Interpreta testi cantati tipicamente da uomini senza cambiarne i pronomi, presentandosi sul palco con sigaro in bocca, pistola alla cintura e abiti da uomo col poncho, simbolo dei contadini rivoluzionari. Rifiuta arrangiamenti complessi tenendo solo la chitarra e la sua voce profonda e ruvida come strumenti di scena.
Le sue interpretazioni struggenti e intense fanno cadere molti ai suoi piedi, ma soprattutto molte. Nonostante abbia fatto coming out in modo ufficiale a ottant’anni, Chavela Vargas è stata per tutta la vita un’icona queer, sia come conseguenza dell’estetica che esibisce sul palco, sia per il fatto che non tiene mai realmente nascosta la sua vita privata, prima tra tutte la sua relazione con Frida Khalo.
La sua fama, nel tempo, diventa internazionale. Canterà addirittura a uno dei numerosi matrimoni di Elizabeth Taylor, salvo poi venire disintegrata a causa dei suoi problemi con l’alcol. Beve tequila prima, durante e dopo i concerti e la sua etichetta si rifiuta di pagarle i diritti. Si ritira così in un oblio fatto di povertà e alcolismo dal quale esce solo 12 anni dopo, tornando a cantare in un piccolo locale a Città del Messico dinanzi a un pubblico incredulo che era convinto fosse morta. Viene invitata a cantare in Spagna al Caracol di Madrid dove incontra uno dei suoi più grandi estimatori, Pedro Almodovar. Il regista, che la ritiene una musa per la sua autenticità e per la forza con cui canta la tragicità dell’amore, ne rilancia la carriera facendola esibire anche al Festival di Sanremo nel 1995.
C’è un gran via vai in Piazza Garibaldi, tra musicisti, messicani in vena di festeggiamenti e turisti. Ma ormai a notte fonda la piazza si svuota. L’autista di Uber affida l’intrattenimento della sua serata lavorativa a una chiavetta USB che, procedendo in ordine alfabetico, elenca una serie di momenti catartici nella vita di ogni essere umano: Quando nacque questo amore, Quando ti ho amato di più, Quando nessuno ti voleva, Quando mi morì il cavallo…
Dopo averlo conosciuto, quando si ripensa al Messico, la verità è che l’unica faccia triste rimane la nostra.

