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50 Years of PUNK!: New York celebra mezzo secolo di rivoluzione underground

svg28 November 2025MagazineChiara Correndo

Nel cuore del Lower East Side, la Ki Smith Gallery celebra i cinquant’anni di PUNK con una mostra che ripercorre la nascita del magazine e il suo essere testimone e catalizzatore di un movimento, quello punk, nella New York selvaggia e incendiaria degli anni ’70 e ’80. L’esposizione riunisce illustrazioni, fotografie e litografie e in occasione dell’opening verranno pubblicati i nuovi numeri della rivista, in collaborazione con il fotografo Nico Malvaldi, i cui scatti raccontano l’underground newyorkese contemporaneo


«A un certo punto i Ramones mi hanno portato una piccola bottiglia di tequila in un sacchetto di carta marrone e una copia della rivista PUNK con due miei disegni in copertina. Joey Ramone se ne stava ai piedi del mio letto con i capelli lunghi, gli occhiali e una salopette strappata. Abbiamo parlato della genesi della parola punk e di come si stava ridefinendo da negativa a positiva. Era un argomento su cui amavo riflettere, come cambia la connotazione di certe parole» (Patti Smith, Il pane degli angeli)

È difficile descrivere che cosa fosse New York, e in particolare quella zona della città che prende il nome di Downtown, in quel periodo storico folle e turbolento che è stato il ventennio ’70-’80. Immaginatevi per un secondo un girone dantesco infernale, tra auto bruciate, barboni ed edifici occupati: una no man’s land in cui nemmeno la polizia si avventurava perché faceva tutto troppa paura. In questo quadro inseriteci ora una comunità artistica di assoluta avanguardia, che dell’isolamento geografico e sociale della Downtown ha approfittato per creare forme espressive peculiari che intendevano esplorare il mezzo artistico in chiave di rottura. Questa comunità è stata protagonista della transizione dal modernismo al postmodernismo, manifestatasi principalmente nel desiderio degli artisti di uscire dalla cornice che delimitava lo spazio espressivo, e dallo spazio bianco sanificato delle gallerie d’arte, per irrompere nella dimensione urbana e nell’intimità dello spettatore, disintegrando il confine: il pubblico partecipava finalmente al perfezionamento dell’opera d’arte. La cornice, fisicamente e metaforicamente, venne decostruita da tutta la critica postmoderna; il contenuto dell’opera non era più autoreferenziale bensì saldamente legato al mondo esterno, dal quale veniva in parte determinato.

Negli anni ’70, il mondo artistico della Downtown si concentrava prevalentemente nella patinatissima SoHo, ed è stato solo agli inizi degli anni ’80 che le attività si spostarono verso l’East Village e il Lower East Side (LES). Qui iniziarono a nascere nuove gallerie dallo spirito più sperimentale delle sorelle glamour di SoHo e, attorno alle case occupate del LES, si coagularono collettivi di artisti politicamente impegnati e intenzionati a piegare quello che era il limite percepito come accettabile delle arti visive e della musica. Nacquero quindi movimenti di avanguardia musicale e visiva come la no wave, un’onda nera nichilista che sullo spirito abrasivo del dadaismo e dell’anarchismo proponeva una visione trasgressiva e infetta del mezzo artistico.

Aggirarsi per gli angoli bui della Downtown – in particolare, Village e LES – voleva dire rischiare un’aggressione a mano armata, come minimo. Ho fatto visita di recente a Julie Hair – componente dell’iconica band 3 Teens Kill 4, in cui suonava anche una delle figure culto della Downtown, David Wojnarowicz – che mi ha accolto nella sua casa a Bushwick. Ho chiesto a Julie cosa volesse dire vivere nel Village negli anni ’80 e mi ha detto, con una tranquillità incredibile, facendo spallucce, che «beh, sì, sono stata derubata una volta, mi hanno puntato un coltello addosso, ma niente di che».

La regista Vivienne Dick racconta con grande nostalgia del suo arrivo a New York e, in particolare, del suo approdo nella Downtown: tutti le sconsigliavano di uscire da sola di notte, ma lei era come rapita dai neon caramellati dei cinema porno, dalle luci morbide dei peep show, dall’aria densa e losca che si respirava, piena di possibilità. Perché ogni angolo della Downtown era una possibilità: è qui che sono nati i sex club più famosi di New York. È qui che hanno mosso i primi passi band che hanno scritto la storia della musica internazionale. È qui che hanno aperto i battenti locali leggendari come il CBGB e il Max Kansas’s City – che annoverava fra i suoi habitué gente del calibro di Allen Ginsberg, William Burroughs e Andy Warhol –.

Nel 1973 il Mercer Arts Center, storica music venue del Greenwhich Village in cui si erano esibiti New York Dolls, Suicide e The Modern Lovers – e dove un’embrionale scena punk rock stava muovendo i primi passi –, crollò. Non figurativamente, crollò letteralmente: alle 17.10 del pomeriggio del 3 agosto l’edificio collassò ferendo diverse persone e uccidendone 4.

È quindi sensato dire che senza il crollo del Mercer Arts Center, il CBGB (o meglio, il CBGB & OMFUG, Country, Bluegrass, Blues, and Other Music For Uplifting Gourmandizers) sarebbe rimasto probabilmente un baretto squallido su una ancora più squallida Bowery – una delle arterie più importanti di Manhattan, all’epoca battuta da barboni, tossici e prostitute, su cui si affacciava l’infelice sede della YMCA, poi trasformata dal nostro Burroughs in abitazione e ritrovo per artisti –. Il CBGB divenne ben presto un incubatore di idee e progetti per giovani band che lì potevano sperimentare senza la pressione delle richieste dell’industria musicale mainstream. Hilly Kristal acconsentì a prendere sotto la sua ala musicisti emergenti, tra cui i giovanissimi Tom Verlaine e Richard Hell (Television), a cui fecero ben presto seguito Ramones, Blondie, Talking Heads e il Patti Smith Group, che diede un’accelerata significativa alle sorti del locale. Il CBGB divenne quindi sinonimo di DIY, antagonismo, matinée hardcore, punk e new wave, ma anche del ritorno a una forma musicale pura, come spiega Luca Frazzi in questa intervista rilasciata in occasione della tanto attesa pubblicazione italiana di un classico sul CBGB, Questa non è una discoteca. La storia del CBGB di Roman Kozak. Frazzi racconta che il locale riportò il movimento rock «ai nastri di partenza»: pur essendo nato appena vent’anni prima, il rock era già vecchio, lontano da quella che era la scintilla eversiva e antagonista iniziale che l’aveva animato. Il CBGB ha resettato tutto e riportato il rock all’essenziale, sia in termini musicali sia in termini di estetica grezza e cruda, così come documentato dal lavoro filmico di Amos Poe, Blank Generation, che impresse su pellicola questo snodo fondamentale nella storia della musica statunitense e internazionale.

A testimoniare la nascita e lo sviluppo di questa controcultura feroce e vitale c’era PUNK, un magazine nato nel 1975 dall’idea di John Holmstrom, Ged Dunn e Legs McNeil e ispirato all’estetica DIY caustica del fumetto underground ibridato con un ultravinilico pop. PUNK mescolava illustrazioni, fotografie, fumetti e interviste con uno stile spiccatamente irriverente e tagliente, costruendo la sua identità sulla migliore filosofia del DIY: come spiegato dallo stesso Holmstrom, chiunque, a prescindere dal fatto di avere o meno abilità tecniche o talento artistico, deve avere la possibilità di esprimersi come meglio crede. Con il suo linguaggio visivo peculiare e un taglio giornalistico orientato a documentare e raccontare la nascente scena punk rock newyorkese, PUNK divenne ben presto un punto di riferimento per l’underground, un mezzo di divulgazione della nascente scena e un trend setter in termini di stile.

Nella sua Storia del CBGB, Kozak ricorda che è stato proprio PUNK a codificare il look del movimento, «un mare di giacche di pelle nera, era l’outfit d’obbligo (…) lo stile era quello di Debbie Harry, che indossava un abito da sposa sul palco e la famosa citazione ‘Questo è l’unico vestito che mia madre abbia mai voluto che indossassi’». È stato poi il magazine a coagulare attorno a un significante ben preciso un’embrionale scena punk dai contorni ancora acerbi e poco definiti. PUNK contribuì a definire e a precisare quelle che erano le caratteristiche essenziali di questa nuova scena musicale, facendole convergere verso un contenitore terminologico, punk, che venne riempito di significato: la stessa parola punk sulla cover fu scelta per il suo potenziale scioccante, «punk was dirty word at the time. Us putting Punk on the cover was like putting the word ‘fuck’ on the cover».

Ritrovatisi al CBGB per il loro primo incarico – obiettivo: intervistare i Ramones –, Holmstrom, Legs McNeil e Mary Harron scoprirono che nel locale c’era anche Lou Reed e riuscirono ad avere un’intervista con lui. Reed, all’epoca fresco di Metal Machine Music, era già un nome molto noto nel panorama musicale e, diventando il protagonista del primo numero di PUNK (gennaio 1976), impresse la spinta propulsiva necessaria a consacrare il magazine a nuova voce dell’underground newyorkese. Fu anche l’importazione in Regno Unito di PUNK #3 – sulla cui cover campeggiava Joey Ramone – ad opera di Rough Trade a creare hype attorno alla leggendaria data della band alla Roundhouse nel 1976.

Con l’ironia che gli era propria, PUNK si fece portavoce di una controcultura che intendeva parlare di libertà fondamentali, anticapitalismo e rifiuto delle convenzioni della società mainstream, anche tramite un mezzo espressivo che intendeva comunicare autenticità attraverso artigianalità, estetica grezza, collage, fotocopie e testi scritti a mano o a macchina. Le pagine di PUNK ospitarono non solo artisti del calibro di Iggy Pop, Debbie Harry, The Ramones, Brian Eno, David Byrne e Joan Jett, ma diedero anche spazio a nuovi scrittori come Mary Harron (regista di American Psycho) e Anya Phillipsperformer, designer e protagonista in diversi film d’avanguardia femminista no wave come Guerrillere Talks di Vivienne Dick – e fotografi come Roberta Bayley e Godlis.

La bellissima esperienza di PUNK terminò nel 1979 dopo soli 15 numeri, a cui fecero seguito alcune special issue – l’ultima delle quali pubblicata nel 2007, per un totale di 23 –, ma l’influenza del magazine nel definire l’estetica, i protagonisti e la filosofia punk è stata profonda, ispirando una serie di pubblicazioni DIY successive e tracciando i binari della ricca cultura delle fanzine punk.

Per celebrare la nascita del movimento punk e la storia del magazine, la Ki Smith Gallery del Lower East Side, con il sostegno di Ilegal Mezcal, ha allestito una mostra che presenterà il meglio di 50 Years of PUNK! con disegni, illustrazioni, fotografie e litografie. La mostra verrà inaugurata oggi, 28 novembre 2025, esattamente 50 anni dopo il giorno in cui PUNK intervistò i Ramones e Lou Reed e chiuderà l’11 gennaio, data in cui le prime copie di PUNK #1 furono vendute al CBGB.

Per l’occasione, verrà pubblicato non solo il numero 24 di PUNK con cover a firma di Johnny Moondog (Labretta Suede e Motel Six), ma anche il catalogo della mostra (PUNK #25) la cui copertina sarà curata nientemeno che da Shepard Fairey (OBEY). Inoltre, per la prima volta nella storia di PUNK, il magazine apre a una collaborazione speciale con il fotografo Nico Malvaldi. Nico si è trasferito negli Stati Uniti a metà degli anni ’90 e, dopo una lunga carriera nel mondo della fotografia di moda e sportiva, è approdato nel 2013 sulla scena underground newyorkese, raccontandola con passione e talento. Dal momento che il catalogo della mostra sarà prevalentemente orientato a presentare l’allestimento, Holmstrom ha deciso di rendere omaggio alle radici musicali underground del magazine affidando la documentazione della parte più strettamente musicale a chi i palchi li conosce bene, ossia Nico, uno dei migliori fotografi della scena newyorkese, nonché il più amato dalle band.

Con uno sguardo sofisticato e mai banale e un bianco e nero tagliente, gli scatti di Nico Malvaldi raccontano il fiume sotterraneo dell’underground che ribolle in un dive bar di Ridgewood o in una discoteca del Lower East Side, un fiume che infiamma i contorni di un teschio tatuato in testa riflettendosi nei pantaloni di latex di una musicista e abbattendosi in mille gocce di sudore dal palco sul pubblico sotto cassa. Nel 2016, Nico ha iniziato a stampare il suo portfolio per dare diffusione al suo lavoro e al suo punto di vista sulla scena, e negli anni la pubblicazione – MANI – si è evoluta diventando un vero e proprio giornale con contributi scritti a corredo delle foto scattate in studio o durante i live. Sarà dunque proprio MANI #30 (o PUNK 24 ½) a rappresentare l’underground contemporaneo di NYC nel contesto delle pubblicazioni collegate ai 50 anni di PUNK, inaugurando una serie di quattro numeri speciali in collaborazione con la Ki Smith Gallery e Ilegal Mezcal.

Questo però è solo l’inizio, io e Nico prossimamente vi porteremo dentro l’underground newyorkese, in mezzo al pogo, in coda al bar, sulla metro di notte. Stay tuned, stay PUNK!

Chiara Correndo

CCCP, drum'n'bass e Ornella Vanoni. Made in Turin.

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