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13 Chambers: storia ed elogio di uno dei dischi più belli al mondo

svg30 January 2025CocciStorieBrando Ratti

Bisogna imparare ad  accettare che possano esistere persone che non conoscono 13 Chambers dei Wugazi o che, ancora peggio, non si struggono dall’emozione ogni volta che lo sentono nominare


Immaginate di essere nel bel mezzo di un matinée casalingo, a bere birre con un simpaticissimo ragazzo sardo che ha il logo del Wu Tang Clan tatuato sul braccio. Immaginate anche di non essere esperti di hip hop e che le prime due cose che solitamente dite quando vi addentrate nell’argomento sono, nell’ordine, sottolineare che non riuscite a farvi piacere 2Pac – prendendovi  insulti da parte del vostro interlocutore – ed elogiare quello che secondo voi è uno dei dischi hip hop più belli del mondo (per quanto, forse, non sia propriamente un disco hip hop): 13 Chambers dei Wugazi.

Per ripercorrere la storia di questo capolavoro dobbiamo tornare al 2011, anno in cui Cecil Otter e Swiss Andy, due producers americani, hanno la geniale idea di fare un mash up tra alcuni brani dei Fugazi e alcuni peazzi del Wu Tang Clan. Si, avete capito bene: i Wugazi sono sostanzialmente i Fugazi che suonano le basi ai Wu Tang o, a seconda dei punti di vista, il Wu Tang che rappa sulla musica dei Fugazi. Un orgasmico dono che due dj yankee hanno fatto all’umanità. Uno delle poche cose che ci rassicura sul fatto che, alla fine, gli americani qualcosa di buono l’hanno fatto veramente.

I motivi che hanno portato alla creazione di un progetto così fuori di testa, che aveva un buon 80% di possibilità di risultare simile al mash up tra Gelato al cioccolato di Pupo e Smack my bitch up dei Prodigy, sono tutt’oggi sconosciuti e circondati da assurde leggende. C’è chi dice che 13 Chambers sia stata una ripicca messa su da Cecil Otter per vendicarsi di Guy Picciotto che lo aveva preso in giro, tempo prima, per essersi smezzato un cono gelato con un amico a un concerto dei Fugazi; e c’è chi, invece, lo descrive come un mezzo per pacificare alcuni scazzi tra la scena hip-hop newyorkese e quella hardcore della capitale.

Che sia nato da un cono gelato leccato a metà, da una pistola puntata alla testa di qualche punk o, molto più realisticamente, dalla volontà di unire le sonorità di due gruppi incredibili e in ogni modo legati alla scena underground e del DIY, 13 Chambers è un disco che può essere ascoltato appena svegli, durante la cena, mentre si fa sport o mentre ci si addormenta. Ma, soprattutto, questo bellissimo disco color canarino riesce a infrangere l’intoccabilità che spesso – e giustamente – è riservata a gruppi di questo calibro.

Un’altra delle cose che rende questo disco ancora più assurdo è che, a quanto sembra, Fugazi e Wu Tang si ignoravano completamente a vicenda. O meglio, che questi due gruppi non si conoscessero, almeno di nome, è una cosa abbastanza difficile: sarebbe un po’ come pretendere che Irvine Welsh non conosca, nemmeno di nome, Raymond Pettibon. Se però vi immaginate riunioni, incontri, promesse di featuring o ipotesi di tournée insieme vi sbagliate di grosso. FugaziWu Tang appartengono a due universi differenti che, per quanto possiedano alcune affinità, non avevano troppi modi di incontrarsi, soprattutto all’inizio degli anni ’90.

Wugazi è un concetto, un’idea, è la volontà di unire due mostri sacri provenienti da due generi differenti per far capire al mondo intero quanto spaccava quella roba e che due cose così belle possono essere unite per rompere quella barriera che, ahimé, troppo spesso frammentano l’universo della musica underground. Certo, a voler trovare il pelo nell’uovo, si potrebbe dire che malgrado il titolo stesso sia un mash up tra 13 Songs e 36 Chambers, molte tracce campionate dei Fugazi provengono da Instrument. Ma è davvero importante?

Nonostante il disco si apra con un ordigno atomico come C.R.E.A.M. che, cantata sopra I’m so tired, fa venire le lacrime dopo 10 secondi di ascolto, il pezzo migliore del disco rimane Shame on Blue: perché ascoltare Ol’Dirty Bastard che canta Brooklyn Zoo su Blueprint dovrebbe essere patrimonio dell’umanità e insegnato nelle scuole.

Ah, ultima cosa: per motivi di copyright il disco non si trova su Spotify, ma potete tranquillamente reperirlo su Youtube.

Brando Ratti

Classe 1990, nasco e cresco a Massa, patria della Farmoplant ma anche dei genitori di Piero Pelù. Dottorando, ho un certo feticismo per le sottoculture, la musica underground, i filosofi presi male, i videogiochi presi bene, i film brutti e i libri belli. Nonostante il cognome, ho paura dei topi.

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