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Ypsigrock Day 3: i The Voidz dominano Castelbuono

Un sabato dalle aspettative altissime, ampiamente soddisfate. Il day 3 è un viaggio che parte con il dolce sussurro del dream-pop dei Deary, attraversa i confini della follia con Sparhawk, danza nel teatro pop di Martha Da’Ro, esplode in sacralità con i Wu Lyf, si perde nell’iridescenza elettronica di Yunè Pinku e si frantuma nell’impeto creativo dei The Voidz. Il festival si fa flusso, racconto, festa, energia


Sabato 9 agosto, Ypsigrock 2025, terzo giorno. Arriva il sabato e Castelbuono sembra già aver piegato il suo respiro al ritmo del festival. Il borgo è un ecosistema in equilibrio instabile, si sente che oggi non sarà una passeggiata ma una vera missione.

Al Chiostro di San Francesco, sull’Ipsy & Love Stage si apre con Deary. Ben e Rebecca Dottie calano un sipario di dream-pop leggero, tra riverberi dorati e linee vocali che si inchinano all’eco. La loro musica ricorda qualcosa dei Beach House, con una dolce malinconia e linee melodiche sussurrate. Una vibe molto moody ma che stenta a partire veramente: è ancora troppo presto, tra cielo di pietra e folla accaldata.

Alan Sparhawk sale sul palco con l’aria di un vecchio hippy resuscitato da un sogno psichedelico. Bastano pochi secondi e, mentre basso e batteria stendono un beat dalle basse potentissime, il fondatore dei Low inizia a muoversi come un reduce di Woodstock in piena trance. La voce, spinta all’estremo con un autotune a cannone e voce pitchata verso l’alto, ricorda l’uso spiazzante e creativo che ne fa Julian Casablancas: non un vezzo pop, ma uno strumento artistico per deformare la percezione. Alla prima canzone si è già tolto la maglia, lanciandosi in I Made This Beat come un druido vichingo intento in un rituale sacrificale. Il pitch sale sempre più in alto, i beat diventano via via più strani e l’effetto è quello di un viaggio ipnotico in cui Sparhawk sembra vivere in un’altra dimensione. Tanti lo seguono incuriositi, altrettanti se ne vanno, anche infastiditi da una performance che stride con le aspettative.

Ci si sposta, scendendo e salendo per le viuzze colorate e decorate da bandiere giallo-rosse. In Piazza Castello suona il primo accordone dell’immancabile Continuo III di Earlyguard, musica d’attesa prediletta per l’Ypsi Once Stage.

Thomas Geysen alla batteria e Aram Abgaryan ai synth spalancano le porte con un’ondata di basse frequenze, che si contorcono fino all’ingresso della voce di Martha Da’ro mentre sale lentamente sul palco, avvicinandosi al pubblico con passo sicuro. Alla fine della prima canzone si ferma, si rivolge direttamente alla platea e ringrazia per l’inizio di questo viaggio condiviso. Le luci, curate con precisione chirurgica da un tecnico che sembra un membro aggiunto della band, seguono la performance come un secondo batterista, scolpendo ogni accento e crescendo. I ritmi tribali sui tom si intrecciano a sequenze e pad elettronici, mentre Martha canta con una voce che unisce una dolcezza infantile a una lama sottile. Il pit oggi si riempie più lentamente, ma la band avanza come un treno.

Prima di Mr. Fear, l’artista ci racconta del progetto Philofobia, «The fear of being loved». Al pubblico affida il ritornello «Such a fool, baby», mentre lei ribatte «I know I’ve been a fool». A un certo punto si emoziona, interrompe la canzone e la piazza risponde con un sostegno caloroso. È come se ci aprisse le porte della sua camera: un momento intimo, immerso in un sogno. Promette che oggi faremo l’opposto della Philofobia, perché sente l’amore che il pubblico le sta dando. In effetti, l’artista belga-angolana lo restituisce moltiplicato, trascinando tutti a ballare e cantare. Presenta la band, con un plauso speciale a Thomas, artefice di ritmi africani che incendiano la piazza. Un’apertura che, tra emozione e potenza ritmica, accende la miccia.

I Wu Lyf – acronimo di World Unite Lucifer Youth Foundation, pronunciato Woo Life – è una band di Manchester attiva originariamente tra il 2008 e il 2012. Proprio quest’anno ha annunciato una reunion, con la pubblicazione di A New Life is Coming, canzone che sembra Beautiful Things di Benson Boone cantata dagli Imagine Dragons. Un feedback di chitarra cresce fino a esplodere in un ingresso secco, con colpi all’unisono che scuotono il pubblico. Ellery James Roberts e Evans Kati si scambiano frasi in un botta e risposta che poi si trasforma in un intreccio vocale, fino a raddoppiare le linee melodiche.

Il sound ricorda più il rock americano che la tradizione di Manchester, un’anima heavy pop che flirta con tormentoni da Tik Tok. Ellery, un po’ esaltato e molto protagonista, incita la folla al pogo e al crowdsurfing, parlando della pioggia che oggi è solo un ricordo qui in Sicilia ma onnipresente nella loro città. Alcuni momenti sfiorano il cringe: atteggiamenti da “figo del liceo” e una certa tendenza allo show-off  lo rendono buffo, a volte involontariamente.

La band dietro di lui rimane statica, mentre il palco sembra costruito per canalizzare tutta l’energia del frontman. Le canzoni, spesso lunghe e dilatate, ricordano l’approccio estenuante di Bruce Springsteen, ma senza la stessa caratura né tantomeno l’aura e la profondità di The Boss. Ripetitività ed egocentrismo continuano a emergere qua e là, ma per il pubblico più carico l’energia resta il vero collante dello show.

Con Yunè Pinku c’è un cambio netto: si va subito al sodo, senza tanti giri di parole. I suoi beat da club, glitchati e ipnotici, sono un incubatore per mosse lente e occhi chiusi. Ci immergiamo subito in un bagno di fumo e luci avvolgenti, mentre la voce sensuale e distante di Yunè si fa spazio come un ricordo lontano, evocando l’atmosfera di un rave immerso nei boschi. Sul palco, Asha ha al suo fianco una console da cui fa partire i beat; alla sua sinistra il chitarrista, presente solo da due date del tour ma che si integra benissimo nel contesto live, contribuisce all’immersione sonora con lunghi tappeti di note, feedback avvolgenti e accordi distorti.

Sullo schermo dietro la cantante scorrono visual astratti e video evocativi, in cui la stessa cantante londinese appare in una prateria notturna o in un bosco al chiaro di luna, con primi piani che ricordano i videoclip musicali degli anni 2000. Portando in scena l’EP Scarlet Lamb, l’identità che Yunè Pinku costruisce sul palco è un mix gotico, tra il dark dark e il misterioso.

L’atmosfera è decisamente immersiva e chill: un rave per introversi dove ogni persona nella folla sembra ballare dentro il proprio mondo. Il sound avvolgente richiama chiaramente le vibrazioni shoegaze degli anni ’90, ispirazioni a Massive Attack e Slowdive con cassa dritta. Un’esperienza sonora che cattura e convince, trasportandoci con decisione verso il grande momento della serata.

La piazza non è stata mai così piena in questi giorni. Persone di ogni età indossano magliette dei The Strokes, che conferma quanto Julian Casablancas sia una di quelle importantissime figure multi-generazionali. Prima di entrare sul palco, la band fa partire una playlist che spazia tra Megadeth e Boy Harsher, forse per sintonizzarsi con un mood oscuro e potente. L’apertura è affidata a Take Me In Your Army, una sorta di ninna nanna inquietante che invita il pubblico a immergersi nell’ atmosfera spooky della band headliner, cupa e decisamente fuori dagli schemi.

Alla seconda canzone, Pyramids of Bones, i The Voidz mettono subito le cose in chiaro: sono padroni assoluti del loro suono. La qualità tecnica è impressionante, frutto di anni di esperienza su palchi importanti. Julian, con i suoi iconici occhiali da sole e il guanto senza dita, si piega sul microfono dando vita a melodie malinconiche, cariche di un’emotività che rende la sua sola presenza magnetica. L’estensione vocale del frontman è ormai nota e tutti, ma coi The Voidz Julian si diverte, giocando con l’autotune in maniera artistica, come se fosse lui a dominarlo e non il contrario – come accade spesso nel pop moderno –. Poi, distorce la voce in una serie di grida che sembrano provenire dall’inferno e il pubblico si scatena.

Tra poghi infiniti, cerchi della morte e crowd surfing continui, il pit è infuocato. Il motore instancabile della performance si chiama Alex Carapetis: oltre a Wolfmother, il batterista ha collaborato con diversi artisti di rilievo, tra cui Nine Inch Nails, con cui ha condiviso momenti di tour e studio, dimostrando la sua capacità di lavorare in contesti sia rock sia elettronici. La sua apertura verso sperimentazioni sonore e l’uso alternativo delle percussioni lo rende un elemento molto ricercato. Dal vivo sembra indemoniato, con un portamento magistrale e una creatività affascinante.

Jeramy Gritter, noto come Beardo, si presenta con un mantello da Dracula, completamente immerso nella parte. Conosciuto per il suo stile versatile, ha contribuito a plasmare il sound distintivo della band, caratterizzato da influenze post-punk e garage rock. La sua presenza scenica e la sua abilità tecnica lo rendono una figura centrale nel gruppo, insieme a Amir Yaghmai, col quale scambia assoli e arpeggi intricatissimi, al limite della cacofonia, con un gusto armonico che spazia dalla musica classica all’heavy metal. Jacob “Jake” Bercovici  e Jeff Kite contribuiscono a portare la band in una dimensione elettronica psichedelica, mai banale, mai scontata, arricchita da suoni strani e soluzioni non convenzionali. I sei giocano insieme al pubblico, improvvisando, scatenandosi, cazzaggiando. Julian loda la Sicilia conferendole il titolo di «really really really fucking cool place». Non potrebbe esistere epilogo migliore di Where No Eagles Fly: la piazza si lancia nell’ultimo pogo scatenato prima che si spengano le luci.

I The Voidz rappresentano il coronamento di una giornata carica di grandi aspettative, ampiamente superate. La band americana si afferma non più come il semplice “side project di Casablancas”, ma come un gruppo capace di dominare un festival e innalzare la qualità musicale a un livello superiore. Castelbuono ieri era un cuscino sotto la testa, oggi sembra diventato un cuore palpitante. Si torna a casa con le orecchie che fischiano, pronti per un ultimo giorno che promette di essere tutto tranne che defaticante.

 

foto di Giorgia Mirabile 

Primo Polzifari

Vivo dentro la musica da sempre e cerco di descrivere al meglio ciò che mi emoziona.

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