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Ypsigrock Day 2: l’incanto e il disincanto

Il secondo giorno dell’Ypsigrock è un’oasi di ristoro tra due giornate impegnative. Le Mermaid Chunky trasformano la piazza in un’Atlantide glitterata e sembrano le uniche a conquistare interamente l’amore dell’Ypsi Once Stage, tra Makeshift Art Bar, Porridge Radio e Cocorosie. Divorce e Ugly addolciscono la serata ribaltando le aspettative all’Ypsi & Love Stage


Venerdì 8 agosto, Ypsigrock 2025, secondo giorno. Siamo lontani dal fervore e dalla rabbia di ieri sera, Castelbuono però sembra meno timida, ormai consapevole del suo ruolo scenico: i bar sono pieni già dal primo pomeriggio, la piazza è viva come un set in allestimento e le vie odorano di rosticceria. Tra l’aria già satura di aspettative e afa, c’è qualcosa di disordinato e bello nell’energia che si respira.

Sull’Ypsi & Love Stage, l’apertura è affidata ai Divorce, quartetto post-punk/pop-noise da Nottingham. Guidati da Tiger Cohen-Towell (voce e basso), insieme a Felix Mackenzie-Barrow (chitarra/voce), Adam Peter Smith (chitarra) e Kasper Sandstrom (batteria), la band si muove su tracce sbiadite dei Sonic Youth e slanci pop alla Wet Leg. Anche se il palco è scarno, la loro presenza scenica è molto estetica, con strumenti di brand non convenzionali, visivamente particolari e abiti che richiamano un immaginario vintage di tendenza da reel di Tik Tok. Le voci di Felix e Tiger si intrecciano e si incontrano con dolcezza. Nel chiostro l’atmosfera è perfetta per le loro derive sbilenche, che non cercano mai l’ovazione ma la tensione. Durante i ringraziamenti esprimono il loro entusiasmo verso la location, mentre il pubblico si ammorbidisce.

A seguire, da Cambridge arrivano gli Ugly, collettivo art-rock fondato attorno alla figura di Samuel Goater, voce e autore. La band è nota per un’attitudine DIY spinta e per arrangiamenti corali intricati che combinano folk, jazz, psichedelia e post-rock, con strumenti che cambiano a ogni brano. Forse il palco e la situazione sono un po’ limitanti, ma gli inglesi riescono comunque a creare un’aura di spiritualità, marchio di fabbrica consolidato dopo il loro ultimo EP Twice Around The Sun. È una messa laica sotto le Madonie, che rompe le barriere linguistiche col pubblico grazie alle origini italiane di Jasmine Miller-Sauchella, che interviene tra una canzone e l’altra. Oggi l’Ypsi & Love Stage supera il vibe check, con tutto il chiostro che ondeggia su canzoni che sembrano figlie di Grizzly Bear e BCNR, con un’altissima dose di chill. Sicuramente, con un set più organizzato avrebbero saputo rendere meglio la complessità dei loro arrangiamenti. Dispiace solo non averli visti sul main stage, se lo sarebbero meritato.

Con il tramonto, l’Ypsi Once Stage si riempie lentamente e tocca ai Makeshift Art Bar, quartetto noise/post-punk di Belfast composto da Joseph Sweeney, Alleyah Boulaich, Callum McGuigan e Callum Sweeney. La band inizia con due minuti d’anticipo davanti a una piazza ancora lontana dal riempirsi. L’avvio è stanco, trascinato da un basso martellante e da una frase ripetuta con svogliatezza, finché un’esplosione di feedback e fill di batteria ostinati accompagna le urla di Joseph. Il set vira verso una direzione noise post-industriale con cassa in quattro e voce sommersa da riverbero. Il pubblico, attratto dalla vibe quasi rave, risponde con i primi poghi. Un velo di sludge crea un’energia fisica palpabile, perfetta sulla carta per aprire la serata principale. Nonostante questo, il ritmo non sale, lasciando la performance un po’ fiacca. Il gruppo saluta e ringrazia con un tono disincantato, complice anche qualche problema tecnico di troppo.

Mermaid Chunky è il duo britannico formato da Freya Tate e Moina Moin, nato tra le comunità creative di Stroud e Londra. Uniscono musica e arti visive in performance surreali fatte di costumi visionari, proiezioni e sonorità ibride tra folk, elettronica sperimentale, free jazz e pop psichedelico. Dopo l’esordio con Vest (2020), nel 2024 pubblicano slif slaf slof per DFA Records, guadagnandosi il plauso di James Murphy (frontman degli LCD Soundsystem) e il titolo di Breakthrough Artist dell’anno. L’esibizione si apre con un organo leggero e un assolo di sax riverberatissimo, che rompe la noia come un’oasi nel deserto. Sullo sfondo scorrono visual astratti, lo-fi, al limite del trash, con tema flora e fauna marina. Parte un beat che sembra il preset di una tastiera per bambini, così come la canzone, una specie di Baby Shark per adulti: sequencer, percussioni da strumenti giocattolo e testi ripetuti ciclicamente come una filastrocca. L’atmosfera è quella di un cartone animato ipnotico e psichedelico, in un futuro distopico subacqueo.

Ogni brano è un mini-musical assurdo, con testi che parlano di ansia da supermercato, oracoli da discount e amori disfunzionali. Dopo un primo impatto straniante la folla comincia a entrare in questo magico mondo, sempre al limite del trash, come venisse lentamente trascinato per la mano dalle nostre due sirene verso un fondale marino glitterato. Melodie di flauto dolce virano in sonorità piratesche, evocando reminiscenze da Bikini Bottom. Il flauto viene messo in loop, creando strati di follia e sequenze psichedeliche. Il pubblico ormai le ama: nel pit, si formano cerchi dove tutti ballano a braccetto come in un pub irlandese e la gioia pervade ogni volto, solcato da sorrisi spontanei e genuini. Quando entra la cassa, la folla ondeggia dolcemente, illuminata da luci che sono raggi in un fondale, filtrati dal mare increspato. Tra queste onde spuntano due bandiere della Palestina, subito notate e lodate da Moina, che inizia a suonare una campana e poi continua a volteggiare su se stessa. Siamo all’ultimo brano e il pubblico non vuole che le musiciste abbandonino il palco. La sensazione è che abbiano suonato un’unica grande serenata, terminata con Freya che canta melodie arzigogolate mentre Moina dirige la folla in un ballo di gruppo, che è una sorta di macarena swag subacquea. Uno spettacolo incredibile e inaspettato, che rappresenta il picco della serata.

Dopo qualche problema tecnico arriva il primo accordo dei Porridge Radio. Già dall’inizio si respira uno stile e una vibe completamente diversa. Sulla carta, sono uno dei nomi più acclamati dell’indie rock britannico degli ultimi anni. Nati a Brighton, la band ha raggiunto la consacrazione con l’album Every Bad (2020), valso loro una nomination al prestigioso Mercury Prize.

La voce di Dana Margolin è forte e potente ed emerge da arrangiamenti semplici ed emotivamente coinvolgenti. La frontwoman sovrasta ogni musicista, dando al progetto la forma di uno spettacolo guidato principalmente dalla sua presenza solista. La band ha un ruolo di supporto e nell’insieme non sembra suonare come un ensemble realmente coeso. Il suono è un po’ impastato e confuso, rendendo la comunicazione e l’empatia con il pubblico meno immediata. Le canzoni rimangono sempre ancorate a una struttura tradizionale e riconoscibile e, a parte le prime file di fan accaniti, manca un pur ricercato sing-along.

Il rapporto con la platea si limita a saluti e ringraziamenti diplomatici e un po’ distaccati: ciò non aiuta a creare un legame duraturo col pubblico, che rivela comportamenti un po’ altalenanti tra le canzoni. In qualche modo, il risultato ricorda un Florence and the Machine wannabe, in cui la potenza vocale è l’elemento cardine. Nonostante le intenzioni da rock band e l’interpretazione drammatica da parte di Dana, i Porridge Radio restano una brezza in slow motion, che sfiora la piazza senza stravolgerla.

Chiude la serata uno dei progetti più eterei e disturbanti della scena art-pop mondiale: le CocoRosie, ovvero le sorelle Sierra e Bianca Casady, tornate con un tour che celebra i 20 anni di carriera. Dal 2004, con l’uscita di La Maison de Mon Rêve, hanno ridefinito i confini del pop sperimentale: un mix surreale di hip-hop, opera, elettronica naïf e folk da cameretta, spesso accompagnato da costumi fiabeschi e visual gotici.

Anche loro, purtroppo, si trovano ad affrontare problemi tecnici durante le prime canzoni. Il palco non ha visual, lo sfondo è completamente nero e il contributo scenografico si limita agli strumenti musicali utilizzati, a cui si aggiungono due pedane per i loro turnisti: uno alla batteria, l’altro ai synth e alla drum machine. L’unico elemento distintivo è il classico trucco marcato sui volti della band, con una matita nera che sottolinea i tratti del viso in maniera drammatica, ahimè appannaggio delle prime file. Due voci dallo spessore canoro elevatissimo iniziano a incantare la folla e dopo pochissimo tempo si lanciano in un coro al grido di «free free Palestine»: sono il primo progetto a menzionare apertamente la questione in questa seconda giornata. Nel complesso, il gruppo riesce a soddisfare le aspettative dei fan storici, mentre tanti altri abbandonano la piazza prima della fine del concerto, forse delusi da uno spettacolo poco coinvolgente per una band headliner.

In questa seconda giornata di Ypsigrock 2025, gli underdogs hanno superato i big, riuscendo a entrare in risonanza con un pubblico attento e partecipe. Una giornata che non sembra conservare alcun collegamento col peso politico e l’agitazione del giorno prima, ma anzi, al contrario, tende ad alleggerire e addolcire, a cullare e coccolare. Un cuscino sotto la testa di un sabato – quello di oggi, terza giornata di festival – che si preannuncia impegnativo.

 

foto di Giorgia Mirabile

Primo Polzifari

Vivo dentro la musica da sempre e cerco di descrivere al meglio ciò che mi emoziona.

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