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Vent’anni dopo, la nostalgia al cubo degli Offlaga Disco Pax

Vent’anni dopo l’esordio discografico Socialismo Tascabile (prove tecniche di trasmissione), gli Offlaga Disco Pax tornano dal vivo con un tour celebrativo, collezionando una lunga serie di sold out in quasi tutta Italia. Ieri sera, al primo del loro doppio appuntamento all’Hiroshima Mon Amour di Torino, Max Collini fatica a contenere l’emozione di fronte al suo pubblico più affezionato, che non li ha mai dimenticati


Reggio Emilia, 7 marzo 2005. Sono tempi duri per la sinistra italiana, in piena crisi d’identità. Il fervore politico che ha caratterizzato il Paese nel corso del secolo precedente si è quasi del tutto spento. Il Capitale ha vinto, senza incontrare resistenza. In questo clima economico, politico e sociale esce Socialismo Tascabile (prove tecniche di trasmissione), un disco a suo modo innovativo e, nel suo malinconico rivolgersi al passato, a tratti avanguardistico. Non tanto per il recupero delle sonorità new wave degli anni ’80 che, ispirate a gruppi come New Order e Joy Division – ma anche e soprattutto CCCP –, sembrano condividere con i testi delle canzoni il sentimento di rimpianto per un tempo che fu, quanto piuttosto per lo stile narrativo che ne contraddistingue i brani. Fotografie, istantanee, ricordi tangibili di un cambiamento epocale vissuto attraverso le piccole cose della vita quotidiana: i chewing gum al gusto Cinnamon, i Tatranky, il Toblerone, il declino del Lucerna di Praga, il catechista che votava Pannella, il busto di Lenin nel paese dov’è nata Orietta Berti. Storie, aneddoti, accuratamente contestualizzati, che hanno il sapore di parabole moderne. Il tono di Max Collinifrontman del gruppo, che racconta ma non canta – è ironico e rassegnato. Ma soprattutto, è denso di nostalgia.

Ed è proprio questo sentimento di nostalgia che, 20 anni dopo, spinge gli Offlaga Disco Pax a ritornare in scena. Il gruppo, scioltosi nel 2014 dopo la morte di Enrico Fontanelli, ha intrapreso un lungo tour celebrativo per il ventennale del disco lungo tutto lo Stivale, collezionando sold out in quasi tutte le date proposte. All’Hiroshima Mon Amour di Torino, c’è il tutto esaurito per due sere di fila.

Perché la nostalgia è contagiosa, intramontabile. Anzi, si ostina a crescere con il passare del tempo. Così, come in pellegrinaggio verso un luogo di culto, dopo un’attesa durata vent’anni l’affezionato pubblico degli Offlaga si accinge lentamente a riempire la sala concerti dell’Hiroshima, per il primo di questo doppio appuntamento. Ad attenderlo c’è un altarino a centro palco, illuminato dall’alto con un riflettore. Un oggetto per (quasi) ogni canzone presente in scaletta compone quello che a tutti gli effetti ha l’aspetto di un totem commemorativo: il modellino di una vecchia Golf, il dizionario della lingua italiana Le Monnier, un albo di Zora la vampira, i già citati dolciumi – il Toblerone e i Tatranky, «ovvero pacchetti tipo Loacker, ma molto più buoni» –, una pantofola marcata De Fonseca, una latta con l’effige di Doraemon e l’immancabile talpa Krtek di peluche che sempre ormai la band si porta appresso, testimone silenzioso del ricordo di Fontanelli.

«Gli Offlaga Disco Pax sono un collettivo neosensibilista contrario alla democrazia nei sentimenti, perché i sentimenti sono una dittatura». Con queste parole comincia il live del trio emiliano, completato per l’occasione, accanto ai fondatori Max Collini (voce) e Daniele Carretti (chitarre e tastiere), da Mattia Ferrarini, compaesano polistrumentista alle prese con sintetizzatori Moog, tastiere, infinite pedaliere e basso elettrico. Il volto di Collini appare fin da subito visibilmente emozionato: gli occhi lucidi, lo sguardo fisso davanti a sé, un grande sorriso che spesso affiora sul suo viso, sfuggendo al controllo del personaggio che sul palco incarna. Ma Max non ne fa mistero. Anzi, rivolge al pubblico frequenti sguardi di intesa, per renderlo partecipe delle proprie emozioni. Il clima, così, diventa familiare. È una rimpatriata, una celebrazione affettuosa. In poche parole, ci sentiamo a casa.

Il gruppo ripercorre così il suo esordio discografico dalla prima all’ultima traccia, in ordine sparso, lasciando per ultimo il suo pezzo forte. Cadenzati da brevi e concise introduzioni, i brani in scaletta si susseguono diligentemente, senza particolari picchi performativi. E diligentemente, come lo stesso Collini commenta sul palco, il pubblico li ascolta. Ne ascolta le storie, in silenzio, rapito da ogni singola parola pronunciata, come se la sentisse per la prima volta. Dai borbottii lamentosi del professore Kappler all’infatuazione per la Khmer rossa, dai contrasti col commesso dal Tono metallico standard alle vicende della Piccola Pietroburgo. C’è spazio, poi, anche per qualche brano tratto da Brachelite (Dove ho messo la golf?, Sensibile e Onomastica) e Gioco di Società (Piccola storia ultras), gli altri due album della band. A chiudere, dopo una timida cover di Allarme dei CCCP, la tanto attesa Robespierre.

È vero, i tempi sono dilatati e i brani sembrano scorrere lentamente, dando l’impressione di aver subito un rallentamento rispetto alle sonorità originali. Leggermente infiacchiti dal tempo, forse, ma suonati con estrema cura, la cura di chi li ama e ci è fortemente affezionato. Del resto, a chi si trova in questa sala importa poco della forma. Siamo qui per ricordare, commemorare ed emozionarci. Tutti quanti, sopra e sotto palco, allo stesso modo. E l’operazione riesce, non poteva che riuscire. Perché i sentimenti, in fondo, sono una dittatura.

 

foto di Alessandro Gennari 

Alessandro Bianco

Giornalista, musicista e Video Editor, classe 1992. Vivo a Torino, in un mondo d’inchiostro e note musicali, di cinema e poesia: da qui esco poco e poco volentieri, ma tu puoi entrare quando vuoi.

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