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Un Artico caldo a Bra per il sold out di Marco Castello e La Niña

Arriva alla nona edizione e al primo sold out Artico Festival di Bra. Dopo l’apertura della torinese edera, direttamente dalla furèsta sale sul palco La Niña, seguita da Marco Castello, artisti di incredibile talento che fanno del loro legame con il luogo di origine la loro forza e il loro tratto distintivo


Arriva alla nona edizione Artico Festival, ospitato nella splendida cornice del Parco della Zizzola di Bra. Nonostante il palco sia sul Monteguglielmo, il colle più alto del circondario, la situazione è decisamente poco artica e non solo per il caldo già aggressivo per una tranquilla sera di metà giugno. Il pubblico infatti ha aderito numeroso facendo registrare il primo sold out nella storia del festival. 

Il compito di inaugurare la serata – partendo di soppiatto da un parco laterale – è affidato a edera, progetto solista di Margherita Ferracini, musicista anche del gruppo alt rock torinese Irossa. Ad accompagnarla a tastiere e basso è Claudio Lo Russo, cantante e chitarrista di un’altra band torinese, gli Atlante. Nonostante la posizione defilata e le ridotte dimensioni del palco, il duo richiama subito l’attenzione grazie all’interessante amalgama tra la voce delicata di edera e le basi elettroniche con suoni distorti e ritmo incalzante.

La situazione sfugge rapidamente di mano quando in pochi minuti si passa da un’edera a un’intera furèsta con Carola Moccia, in arte La Niña, che si prende la scena arrivando sul palco principale con un lungo vestito rosso e una tammorra, chiarendo a tutti quale sarebbe l’estetica di un Notre-Dame de Paris ambientato a Posillipo

Ad arrivare dritte senza mediazione al pubblico non sono solo l’estetica e la potenza dell’esibizione, è anche una questione di spessore del discorso. Insomma c’è molto di più di quello che si vede e non è che quello che si vede sia poco, complici anche Francesca Del Duca, Lydia Palumbo e Alfredo Maddaloni che con tastiere, nacchere, tammorre, mandolini e voci incredibili accompagnano l’esibizione.

«Non scrivo molto d’amore» dice La Niña mentre quasi le cade la chitarra. «Maronn’ mia, questo è il karma» dice senza lasciarsi allontanare dai temi che le stanno davvero a cuore. Si parla di natura e di animali – con speciale menzione ai gatti – come testimonia Oinè, la versione barocca di un dissing, uno scontro allegorico tra un serpente e un gatto. 

Dalla terra poi ci si sposta con La storia di Afrodite «nata ‘mmiezz’ ô mare» del quale La Niña sottolinea l’ambivalenza, considerando che lo si può vedere dalla costa – sempre che non si parli di quella costantemente privata dagli aiuti che proprio dal largo dovrebbero raggiungere terra – o trovandocisi in mezzo. Di questo tratta ad esempio Fortuna, una storia che arriva direttamente dallo sportello migranti di Monza e che racconta di Fatima, una ragazza di 24 anni che è riuscita a far arrivare in Italia la figlia proprio attraversando il mare.

Nonostante non le piaccia parlare d’amore in modo diretto, a La Niña piace «far ‘a pusteggia», corteggiando il pubblico con versioni rivisitate di Maruzzella e Era de maggio di Salvatore Di Giacomo. Anche se quella che lei stessa definisce la più vera delle sue canzoni d’amore è Manalonga, storia cantata in forma fisica solo su vinile. Si parla di una strega beneventana, relegata in un pozzo, che con la sua mano cerca di afferrare i passanti per portarli sul fondo con lei. Il riferimento è alla depressione, di cui anche la cantante ha sofferto, che trova nell’empatia l’unica via d’uscita. 

Con questo diffuso sentimento di gratitudine e riconoscenza La Niña chiude la sua esibizione introducendo Marco Castello come «uno dei migliori artisti del nostro Paese». D’altronde i due, entrambi con due dischi all’attivo, condividono l’indissolubile legame tra la musica e il loro luogo di origine, nonostante il passaggio da Milano dove la distanza tra multiculturalità e uniformazione rischia di essere molto breve.

«Ma come dovrei fare io a suonare dopo lo spettacolo che c’è stato?» esordisce Marco Castello che si presenta sul palco poco dopo le dieci, con un outfit sbarazzino e l’occhiale scuro di chi ha intenzione di godersela tutta la vita, come conferma poi lui stesso saltellando sul palco con la chitarra imbracciata come un fucile.  

Partendo da Porsi, Castello alterna canzoni tratte dall’album Contenta tu a brani di Pezzi della Sera, come Beddu e Polifemo, facendo ballare e cantare a squarciagola il pubblico. Un esito inevitabile considerando l’energia incredibile trasmessa da un accompagnamento al gran completo: Giuseppe Molinari alla batteria, Daniele Bronzini alla chitarra elettrica, Leonardo Varsalona alle tastiere e la sezione fiati con Rodrigo Patti, Stefano Ordisi e Andrea Iurianello

A un certo punto arriva sul palco un aeroplanino di carta con un numero di telefono, ma il cantante ha occhi solo per La Niña che lo accompagna sul palco in una versione chitarra e voce di I’ te vurria vasà, pietra miliare della musica napoletana. Per portare alla conclusione una serata di musica incredibile, Castello omaggia il brasiliano Gilberto Gil cantando Palco e gli italiani Enzo Carella, di cui esegue Amara, e Lucio Battisti di cui canta Orgoglio e dignità, proprio quella che rischia di perdere poco dopo quando parte un’improvvisazione di Pop porno, commentata dal cantante con un sorpreso «Ma come ci siamo arrivati a tutto questo?».

Si chiude con Torpi una serata in cui si è sciolto tutto quello che si poteva sciogliere e di Artico è rimasto proprio solo il festival.

 

foto di Elisabetta Ghignone

 

Giulia Beghini

Non sono un'ingegnera, non sono una giornalista. Sono un po' come Balto che so soltanto quello che non sono, ma almeno non abbaio. Il mio rapporto con la musica è da credente non praticante: non sono capace di suonare niente, ma credo valga la pena ascoltare di tutto.

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