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Tra groove mediterranei e jam urbane, i C’mon Tigre celebrano il loro album d’esordio

All’Hiroshima Mon Amour, i C’mon Tigre risuonano il loro primo disco in una lunga jam dilatata, tra groove obliqui, accenti jazz e una sala assorta. Un set controllato, educato ed elegante, in cui manca forse un’attitudine più viscerale e selvaggia, in linea con l’energia caleidoscopica dei loro dischi


All’Hiroshima Mon Amour di Torino l’atmosfera è rilassata, quasi ovattata. Non c’è la calca delle grandi occasioni, ma chi è presente sembra esserci per motivi ben precisi: fan affezionati, ascoltatori fedeli, volti che riconoscono ogni passaggio del disco d’esordio omonimo che i C’mon Tigre suonano stasera per intero, brano dopo brano.

L’inizio è cinematografico: una Gibson Les Paul introduce Rabat in solitudine, con note lente e vocalizzi riverberati. Gli altri salgono gradualmente sul palco, senza dire una parola – né tra loro né rivolgendosi al pubblico – come se ognuno fosse già immerso in una narrazione parallela. Sembra un invito a entrare in punta di piedi in un mondo altro, fatto di suggestioni jazz, funk, afrobeat, elettronica downtempo e frammenti mediorientali.

Mentre le luci calde avvolgono gli strumenti e le prime note si rincorrono, sorge spontanea la domanda: cosa ci vogliono dire, stasera, i C’mon Tigre? Nel corso della serata, la risposta si compone e si scompone continuamente. Ogni brano diventa una jam prolungata, un flusso che si muove tra momenti di chimica elettrica da jazz club e passaggi che sembrano nascere più da un’esigenza esplorativa da sala prove che da un vero e proprio concerto. A volte l’ensemble trova l’equilibrio perfetto in un caos controllato, altre volte il controllo sfuma, lasciando spazio a un disordine che, se da un lato stimola, dall’altro disorienta.

A dare corpo a questo viaggio sonoro è una formazione ampia: oltre alla chitarra, alla voce – che si alterna a synth, drum machine – e all’organo Farfisa, ci sono gli ottoni (tromba e trombone), i sax, batteria, percussioni e vibrafono. Quest’ultimo sorprende per il suo ruolo: spesso protagonista, offre assoli stranianti e curiosi, al limite dell’ipnotico, che danno ulteriore originalità al suono del gruppo. I musicisti si prendono spazio per fraseggi, assoli, dialoghi improvvisati. E lo fanno con maestria, ognuno portando una personalità sonora distinta. A tratti però, sembra mancare una vera coesione d’insieme: la potenza dell’interazione si diluisce, l’insieme si perde e la musica – pur bellissima – a volte non spinge, non graffia.

La voce, quasi mai centrale nell’immaginario sonoro dei C’mon Tigre, si rivela l’elemento più difficile da collocare. Non sempre è perfettamente integrata con gli arrangiamenti dal vivo e, a differenza delle versioni in studio, talvolta appare scollegata a livello timbrico o meno armonica con il resto del gruppo. Questo contribuisce a un effetto di discontinuità che rende l’ascolto affascinante ma a tratti spigoloso. Anche la resa scenica, sorprendentemente sobria, pare in contrasto con la fortissima identità visiva e grafica della band, da sempre una delle sue cifre più riconoscibili. Un dettaglio, questo, che contribuisce a una lieve dissonanza tra le aspettative e la resa effettiva.

La sala non è gremita, ma questo contribuisce a una strana intimità: ognuno si prende il proprio spazio, si lascia cullare dai tappeti ritmici e dalle esplorazioni strumentali della band, oscillando leggermente con compostezza. È un concerto educato, persino troppo: i volumi contenuti, l’assenza di veri picchi emotivi e la timidezza nel coinvolgimento scenico fanno sì che l’esperienza rimanga spesso più mentale che fisica.

È un continuo saliscendi di dinamiche e mood, un viaggio musicale che si muove in maniera imprevedibile ma sempre lineare, tra groove che pulsano e derive più cerebrali. Ogni brano è una tela in evoluzione e l’ascolto è vissuto più come un’immersione individuale che come una partecipazione collettiva.

Il concerto si chiude con un bis inaspettato: Twist Into Any Shape, tratto dall’album Scenario del 2022. Un finale sorprendente e forse uno degli unici momenti in cui l’energia rompe davvero l’educazione e qualcosa si muove anche tra il pubblico.

Alla fine, quella dei C’mon Tigre è stata un’esperienza sonora affascinante, ricca di intuizioni brillanti e aperture coraggiose, ma anche attraversata da tensioni, talvolta geniali, talvolta dissonanti. Nel complesso l’esperienza rimane in un limbo strano, come un sogno lucido che non sempre segue una logica, ma che resta impresso, anche grazie a ciò che ha volutamente lasciato irrisolto.

 

foto di Giorgia Mirabile

Primo Polzifari

Vivo dentro la musica da sempre e cerco di descrivere al meglio ciò che mi emoziona.

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