Settembre rappresenta l’opportunità di iniziare un nuovo viaggio. A volte verso la libertà, altre contro la paura. Così parte quello di Mace nel suo ultimo lavoro Māyā, in compagnia dell’onirica voce di Joan Thiele e delle taglienti rime di Gemitaiz. Da questo connubio tra speranza e rassegnazione nasce il racconto breve di questo mese: quale sarà la destinazione finale di Stella?
Un’orchestra sinfonica apre l’ultimo lavoro discografico di Mace: Māyā, pubblicato lo scorso aprile dalla sotto-etichetta di Universal Music, Island Records. L’album è un susseguirsi di tracce perfettamente armonizzate tra loro, con un suono coerente che le collega, ma ogni volta sorprendente grazie all’apporto degli artisti e delle artiste che hanno partecipato al progetto. Protagonista indiscusso è il concetto di viaggio, esplorazione introiettata o analisi del mondo esterno. Viaggio contro la paura è la prima traccia ed è potentissima: immediata e complessa allo stesso tempo, caratterizzata da un’armonia in scala minore che rievoca un dialogo tra due parti. Joan Thiele si riconferma una delle personalità artistiche più corpose dell’attuale panorama musicale, dolcezza e malinconia si fondono nella melodia assegnata all’intensità del suo timbro; poi interviene Gemitaiz, che pare risponderle esprimendo il dolore del fallimento, così da completare il quadro di un amore ormai concluso.
È proprio da questo incipit che Simone Benussi – il vero nome del producer milanese – inizia il suo nuovo capitolo musicale:
«Viaggio contro la paura è il primo pezzo che abbiamo scritto, è nato in modo molto spontaneo all’inizio delle session in Toscana. […] 24 ore al giorno per diversi giorni, nei colori delle campagne toscane, condividendo praticamente tutto, come un collettivo degli anni ’70»
Dallo stesso dialogo nasce il Cantastorie di questo mese. Stella riuscirà a parlare al suo amato Luca per la prima volta, dopo infinito tempo passato a scappare. La destinazione di questo viaggio cambierà finalmente la sua vita, insegnandole l’importanza di correre non per allontanarsi, ma per raggiungere sé stessa.
Oggi è il primo giorno del resto della tua vita
«Corri…», gli occhi di Stella si aprirono di scatto; una debole luce fredda illuminava la stanza; l’orologio segnava le cinque di mattina e una voce atonica continuava, nell’ombra, a pronunciare quel verbo coniugato al tempo imperativo: «… corri, corri, corri!».
La ragazza si portò le mani al collo ancora assopita, come per un riflesso involontario votato a congiungere la realtà con il sogno. L’immagine era estremamente vivida: una collana di perle dai riflessi turchesi le contornava il collo, stringendolo ogni secondo di più. Le perle erano simili a quelle che aveva acquistato in Polinesia Francese soltanto qualche anno prima. Anzi, a dirla tutta era stato Luca a fargliele trovare durante lo sconsolato disfacimento della valigia, una volta tornati a casa dalle vacanze estive. Il contatto fantasma tra le due superfici faceva risaltare, persino nel sonno, le loro caratteristiche contrastanti. Indistruttibili e vitali i minerali, formati dall’intrusione biologica di un corpo estraneo trasformato in preziosità; svigorita e decadente la sua pelle, infettata anch’essa – dal parassita della depressione – con esito decisamente meno apprezzabile.
«Corri, corri, corri, corri», riprese a suggerire la voce, dopo qualche attimo di vuoto.
Anche il secondo movimento nella semi-coscienza fu innescato da meccanismi automatici. La sua mano sinistra scivolò nel lato del letto che soleva occupare il suo amato, ambientazione notturna dei loro scambi di paure. Anche in questo caso, però, era sempre lui l’unico a tirar fuori dallo scantinato le fragilità, per metterle in comune tra le lenzuola che odoravano di accogliente focolare. Per quanto avesse voluto, Stella non era stata capace di snodare la complessità della sua verità troppo dolorosa.
«Luca…», emise la donna a mezza voce. Una parola lunga il tempo di ricontattare la tristezza nel tornare a nominarlo, dopo una guerra conclusa con la caduta del cielo e l’ammalarsi reciproco. «… sei tu?».
Il silenzio rispose al suo posto. Non era Luca, non era nemmeno un suono umano. Piuttosto, un messaggero mentale che le consigliava una delle sue scorciatoie preferite quando si trattava di affrontare i suoi demoni: correre. In bilico tra perplessità e preoccupazione, Stella decise di silenziarsi e rimanere in attesa.
Il dialogo unilaterale continuò finché la sveglia digitale non mutò il proprio segnale luminoso in un orario di goduriosa simmetria. Alle sei e zero sei di mattina, la donna piombò nuovamente nel regno di Morfeo.
«Non sentirti sola, Stella», questa volta la voce era proprio quella di Luca e, insieme ad essa, una musica impossibile da non riconoscere accompagnava il suo abbraccio onirico: era la loro canzone, che recitava “Let it be, let it be/There will be an answer, let it be”. «È normale provare riluttanza nell’accettare il proprio passato. Sei abituata a scappare, e questo lo capisco, ma con me puoi sentirti libera».
Non era precisamente un sogno, ma un tentativo indolente della sua memoria di accoltellarla al petto con ciò che aveva perduto. Qualcosa era visibilmente diverso, però: Luca non assomigliava più a sé stesso, si era dissolto ogni percettibile segno legato alla sua età, alla sua fisionomia. Era sicura che quella persona fosse lui, ma i suoi ricordi sembravano deteriorati. Il sorriso però era lo stesso, così come l’inconfondibile capacità di farla viaggiare con la fantasia:
«Allora, immagina di dover partire per un viaggio interstellare. Immagina una navicella spaziale… l’hai immaginata, amore?»
Stella fece per rispondere, ma si accorse che non solo il dio alato l’aveva resa prigioniera contro la sua volontà, ma le aveva anche tolto la possibilità di parlare. Luca pareva non accorgersi del suo blocco verbale, d’altronde risiedeva nello stesso luogo in cui si andava formando una figurazione poco fantasiosa di un razzo stellare, non aveva davvero bisogno di una risposta.
La ragazza fece improvvisamente capolino dall’oblò di un abitacolo a forma di pallone da rugby, con la punta rossa e il corpo metallizzato. Il suo sguardo era come quello di un coniglio paralizzato davanti agli abbaglianti di una station-wagon. Non riusciva più a vedere Luca, ma lui in qualche modo continuava a parlarle pacatamente all’orecchio:
«Ora partirai per un viaggio, Stella. Il viaggio che non sono mai riuscito a convincerti di fare. La partenza è programmata tra sessanta secondi! Sessanta, cinquantanove…»
Il countdown procedeva, indifferente alle palpitazioni della pilota. I secondi che scorrono mentre si dorme non seguono le logiche del nostro pianeta, Stella ebbe tutto il tempo di venir soggiogata dai sensi di colpa e piangere lacrime asciutte in attesa dell’accensione dei motori. Il veicolo iniziò a vibrare intensamente e rimandarle indietro il pianto, riusciva a percepire il tremore nel sangue – difficile distinguere se tale sensazione fosse limitata al sogno, o al suo corpo svenuto nel letto –; serrò gli occhi e li strizzò talmente forte da riuscire a interrompere il frastuono meccanico sotto di lei.
Alla stregua di un sogno lucido, la sua rappresentazione mentale era riuscita a mettere in pausa la scena del lancio spaziale per catapultarla in un ricordo speciale. L’ultimo con Luca, quando aveva miseramente fallito nel tentativo di spiegargli i suoi blocchi e lo aveva visto abbandonare per sempre l’abitazione condivisa. Con il cuore schiacciato da tonnellate di incomprensione. La collana di perle scintillava nuovamente subito al di sotto della gola, ma questa volta il suo contatto era delicato e protettivo. La donna sedeva sul tappeto di casa, che per l’occasione aveva preso le sembianze di una coltre di nuvole cariche di pioggia.
«Perdonami Luca», era finalmente riuscita ad articolare. «È tutta colpa mia, in questi anni sono stata schiava del mio vissuto e non ti ho permesso di avvicinarti quanto avresti voluto. Ho corso una maratona infinita per allontanarmi il più possibile da ciò che è stato, ma era tutta un’illusione. Ora la vedo la verità, Luca, ho capito che è un viaggio che devo compiere per poter realmente riprendere a vivere. Ma, senza di te…»
Dal petto di Stella partì un proiettile, indirizzato alla figura del suo compagno – seduto di spalle in un cono d’ombra che non ne permetteva una visione chiara – che continuava impercettibilmente a contare all’indietro.
«Dieci, nove, otto…», l’impatto lo interruppe, il bossolo intercettò la scura figura e produsse un’esplosione lucente che permeò l’intera scena. Nel bianchissimo vuoto, il conteggio si concluse: «… tre, due, uno. Addio Stella!»
Era nuovamente all’interno della navicella, che stava per essere espulsa dall’atmosfera terrestre con il rumore più fragoroso che il suo cervello avesse mai immaginato. Si scorse dal finestrino, alla ricerca di qualche segno che potesse rappresentare l’amore della sua vita. Come dalla cima del più alto grattacielo del mondo, ciò che vedeva Stella era un ammasso di persone e macchine in movimento. C’erano sirene urlanti, che impazzavano per le strade di una caotica città sconosciuta. Nessuna traccia dell’uomo con cui aveva convissuto dieci anni, senza mai togliersi la maschera.
Il rombo del motore a propulsione coprì ogni altro elemento caratteristico del sogno. Mentre il razzo si staccava da terra, Stella si dimenò urlando: «Dove mi stai portando? Dove sto andando?».
Un minuscolo dettaglio dal lontano suolo terrestre attirò la sua attenzione, come in un ralenti possibile soltanto in quella dimensione: un sacchetto di plastica eseguiva volteggi in aria secondo una rotta che andava contro le regole della fisica; saliva sempre più in alto, fino a diventare parte del campo visivo dell’astronauta lanciata verso il suo nuovo obbiettivo. Le parlò telepaticamente, era lui.
«Sei pronta Stella? il tuo viaggio ha inizio: un viaggio contro la paura!»
«E cosa devo fare?», urlò disperatamente lei, legata stretta al sedile del guidatore.
Stella si risvegliò di colpo, con ancora l’eco delle sue parole in testa. Si guardò attorno, alla luce del mattino che penetrava dalle persiane della camera. L’orologio segnava le otto e il televisore che ronzava alla sua destra faceva scorrere i titoli di coda di un film che non ricordava di aver avviato la sera prima. American Beauty, pensò, riconnettendosi alla rapida occhiata data quella notte alla luce azzurrina che aveva accompagnato un sonno travagliato.
«Corri, corri, corri, corri!», di nuovo quella voce impersonale.
La ragazza si voltò con rinnovata inquietudine a destra e a sinistra, domandandosi se fosse in conclusione arrivata alla follia. La stanza era completamente vuota e terribilmente silenziosa. Scollegò il cellulare dalla carica e prese a scrollare i social, alla disperata ricerca di una distrazione che potesse allontanarla dal trambusto interiore.
“Regalati un viaggio contro la paura!” diceva un post sponsorizzato, con l’emoji di un missile aerospaziale in copertina. Scorrendo il carosello veniva presentato un percorso di psicoterapia di gruppo in promozione, che iniziava proprio quel sabato mattina. La combinazione – o forse l’algoritmo – volle che il luogo adibito all’incontro fosse molto vicino a casa sua, ma che l’orario d’inizio rappresentasse una sfida: “Venti incontri dalle ore 09:00 alle ore 12:00, ogni sabato”.
«Corri, corri…», intervenne la voce, ma questa volta fu Stella a interromperla.
«Ho capito non ho più tempo, devo correre sì… ma questa volta non per scappare», disse a sé stessa, mentre si precipitava in bagno per prepararsi. «Questa volta correrò per affrontare!».
Si legò strette ai piedi le sue amate Nike da running e uscì da casa, senza voltarsi indietro. Nel frattempo, il dvd preferito di Luca era ripartito da capo e Lester Burnham stava pronunciando una frase simbolo del film:
«Ricordate quei poster con la scritta “Oggi è il primo giorno del resto della tua vita”? Be’, questo è vero per tutti i giorni tranne uno: il giorno che muori!».