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Songs of a Lost World è la fine di ogni canzone che cantiamo coi The Cure

svg6 November 2024AlbumRecensioniPaolo Albera

Dopo un’attesa di 16 anni, è arrivato il nuovo disco dei Cure. Songs Of A Lost World è un album-manifesto del “senso della fine” in cui si può identificare chiunque abbia familiarità con solitudine, abbandoni e addii. Mentre l’ascoltatore è sfidato a scalare le lunghe introduzioni strumentali che anticipano i pezzi più necessari, Robert Smith sceglie con profondità e precisione ogni parola che scrive e che canta, come se fosse l’ultima canzone


«This is the end of every song that we sing», con queste parole inizia il nuovo album dei The Cure, che abbiamo atteso sedici anni. Un verso che da solo è già un instant-classic e che, sul finale del pezzo, viene completato dalla parola alone, che isola l’immagine di partenza in modo ancora più struggente e preciso. Robert Smith ha detto che ci ha messo molto tempo per scrivere un incipit che descrivesse efficacemente il senso di solitudine che gli suggeriva la canzone che stava prendendo forma. L’ispirazione vincente è arrivata leggendo la poesia Dregs di Ernest Dowson. Alone è, a detta del suo stesso autore, «la canzone che ha sbloccato il disco» poiché nel suo senso di fine, di isolamento, di addio, sta il manifesto di tutto l’album che introduce: Songs Of A Lost World, il quattordicesimo della band inglese. 

È uno di quei pezzi dall’impatto tale che, quando lo senti per la prima volta, ti sembra di aver ascoltato un disco intero. La voce arriva dopo uno strumentale che dura quasi tre minuti e mezzo, ovvero (non a caso?) il tempo in cui una canzone pop viene tradizionalmente conclusa. La canzone altro non è che una strutturadi due blocchi che si ripetono identici, con la differenza che il primo è strumentale, il secondo ha l’aggiunta della voce. Nulla appare casuale, ogni dettaglio sembra avere un significato, puoi intuire tra le righe l’ambizione dell’autore di scrivere “la canzone della vita”. Forse non sarà la definitiva canzone della vita di Robert Smith, ma davvero può essere la canzone delle vite di tutti, di ogni ascoltatore che percepisce nella sua esistenza chequalcosasi è spezzato e se ne va – come un «fuoco ridotto in cenere», come «stelle spente dalle lacrime» –, e che trova nella musica dei The Cure una sensibilità più vicina al cuore, che ti fa vedere nell’oscurità, ti fa attraversare la profondità delle emozioni esplorandone la malinconia, ma anche la tenerezza. 

La parola end c’è in quasi tutte le canzoni dell’album. E se non c’è, ritrovi il concetto di addio, di fine, talvolta di lutto. La morte è sempre più presente nei pensieri del 66enne Robert Smith, che di recente, in un breve arco di tempo, ha dovuto sopportare la perdita dei genitori e del fratello. I Can Never Say Goodbye è una canzone sulla morte del fratello maggiore Richard. Anche And Nothing Is Forever racconta della perdita di una persona cara, pretesto per la riflessione che il tempo passa per inesorabile. 

Molti fan dei Cure già conoscevano le tre canzoni citate, poiché la band le suonava da un paio d’anni in tour, proprio nel periodo in cui Robert Smith si era guadagnato un rispetto praticamente unico nel panorama rock mondiale, impegnandosi a combattere le pratiche scorrette delle agenzie di ticketing e a mantenere contenuti i prezzi dei biglietti. Un altro dei pezzi nuovi ma non nuovissimi, già proposti dal vivo, è A Fragile Thing: un canzone d’amore, una ballata “alla The Cure” che suona più tradizionale e assolve perfettamente la funzione di secondo singolo che le è stata assegnata.

25-26: questo è il numero di canzoni che Robert dice di aver registrato nel 2019, per un totale di circa tre album, di cui questo è solo il primo a essere pubblicato. Tra le canzoni scelte per comparire in questo disco c’è Warsong – titolo che richiama alla mente Plainsong, Lovesong e altre familiari desinenze song del loro repertorio, come l’ultima di cui parleremo – la più cupa della tracklist, dedicata all’assurdità della guerra e dell’amara fine e infelicità cui inevitabilmente essa conduce. E poi c’è Drone:Nodrone, ispirata dall’angoscia di trovare un drone intento a spiare la propria casa: un pezzo dalle sonorità robuste graffiate dalla chitarra di Reeves Gabrels e guidate dal riff di basso di Simon Gallup. Il basso dell’inseparabile membro storico della band è lo strumento-guida anche in All I Ever Am, altra riflessione sui cambiamenti causati dallo scorrere del tempo e dell’età. 

Il finale dell’album è Endsong, imponente capitolo di oltre dieci minuti che fa parte del repertorio già testato dal vivo. Introdotta dalla batteria tribale di Jason Cooper e dalle tastiere di Roger O’Donnell, la suite porta ancora più in alto l’asticella del gusto unico dei The Cure per le lunghissime introduzioni strumentali, che in questo caso oltrepassa i sei minuti. È la canzone gemella di Alone. Se Alone è il manifesto dell’album, Endsong ne è la summa, anch’essa struggente, capace di lasciare a lungo nelle orecchie l’emozione nitida di un ritorno importante. Richiamando il verso-guida iniziale, la canzone e l’album si concludono con un verso speculare: «Left alone with nothing at the end of every song»

Il sentimento della fine, della solitudine, dell’addio, è un’epica che Robert Smith riesce a esprimere in maniera unica, con immagini universali e aforismi assoluti che sussurrano alle orecchie delle notturne anime affini. In più, le sonorità di radici anni ’80 che vanno dal gothic rock al synth pop stanno vivendo seconde, terze giovinezze: per la band inglese, quest’epoca è la poltrona più confortevole su cui accomodare il proprio gusto decadente e nero, eppure sempreverde. Senza rivoluzioni di stile ma riproponendo una sensibilità che resiste alla prova del tempo, i The Cure sono nella posizione di abbracciare potenzialmente diverse generazioni, da quella anziana che li ascoltava in vinile a quella giovane che li ascolta… di nuovo in vinile. «La fine di ogni canzone che cantiamo da soli» è la malinconica allegria dello scioglimento di un film mentre scorrono i titoli di coda. Songs Of A Lost World è il primo degli album d’addio dei The Cure

Paolo Albera

Scrivo di musica per chi non legge di musica.

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