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Quando la TV rovina la musica: il peso dei talent e dei festival sull’industria musicale

Talent show e festival come Sanremo stanno plasmando un’industria musicale sempre più orientata verso un pubblico adulto e televisivo, soffocando gli artisti emergenti. Serve un cambio di rotta: spazi, pubblico e industria devono tornare a rischiare. Il futuro della musica dipende anche da noi


Nel 2025 è ormai evidente: l’industria musicale italiana è fortemente influenzata da fenomeni televisivi come X Factor, Amici e persino il più blasonato Festival di Sanremo. Se da un lato questi format hanno l’indubbio merito di portare la musica nelle case di milioni di spettatori, dall’altro pongono una questione cruciale sul futuro del settore: a chi si rivolgono davvero e che tipo di pubblico stanno formando? La risposta, se guardiamo i numeri e osserviamo le platee, è chiara. Questi prodotti sono costruiti principalmente per un’audience televisiva e, dunque, per una fascia d’età più matura. Il risultato? Un mercato musicale condizionato dai gusti di chi ha passato da tempo l’età dell’esplorazione musicale, ma detiene ancora il potere d’acquisto e il telecomando.

Un esempio eloquente di questo slittamento generazionale si è verificato lo scorso 20 marzo all’Hacienda di Roma, durante il concerto dei Patagarri, noti ai più dopo la loro partecipazione a X Factor 2024. Una band giovane, sperimentale, piena di potenziale, capace di unire jazz, rap e stile gipsy. Eppure, l’età media del pubblico era di circa 50 anni. Nessuno cantava, nessuno ballava. Tutti immobili, come se stessero assistendo a un’opera teatrale anziché a un concerto. I pochi giovani presenti, che provavano a muoversi e a lasciarsi trasportare dalla musica, venivano guardati storto e addirittura rimproverati. Un paradosso: artisti emergenti, che dovrebbero rappresentare il fermento e la ribellione di una nuova generazione, si ritrovano ingabbiati in un contesto statico, fatto di rituali televisivi e palati conservatori. Questo è uno degli effetti collaterali più gravi dell’egemonia mediatica dei talent.

Va detto, però, che i talent hanno anche lati positivi. Offrono visibilità immediata a giovani artisti che altrimenti faticherebbero a farsi notare. Forniscono una struttura professionale, strumenti tecnici e produttivi, spesso impensabili per chi inizia da zero. Alcuni nomi importanti della scena italiana, da Mahmood a Elodie, provengono da questi contesti e hanno poi saputo costruirsi una carriera autonoma e originale. Ma quanti ce la fanno davvero? E a quale prezzo? I talent tendono a standardizzare. Impongono canoni vocali, estetici e narrativi ben precisi. Si cercano storie prima ancora che canzoni. Si vendono personaggi più che artisti. Il tutto confezionato per un pubblico televisivo che vuole emozionarsi con il racconto, non con la sperimentazione musicale. E gli artisti indipendenti, quelli che non rientrano in questi canoni, restano fuori dal radar. O peggio, quando riescono a entrare nel mainstream, si ritrovano circondati da un pubblico che non li comprende, che non è lì per loro, ma per il contesto rassicurante in cui sono stati inseriti.

Un esempio lampante di questo meccanismo è rappresentato dai Måneskin. Per molti, il gruppo romano sembrava l’eccezione, una band italiana che ce l’ha fatta a livello globale, uscita da X Factor, vincitrice del Festival di Sanremo e trionfatrice all’Eurovision. Hanno calcato i palchi dei più grandi festival internazionali e firmato contratti con etichette americane. Ma oggi, il loro percorso appare più come un fenomeno mediatico che come un reale impatto musicale duraturo.

Dopo l’euforia iniziale, il loro successo si è affievolito, lasciando emergere le fragilità di un progetto costruito a tavolino per piacere al grande pubblico: estetica studiata, provocazione dosata, rock ripulito per l’esportazione. Un pacchetto perfetto per il pubblico generalista, ma incapace di reggere il confronto con l’autenticità e la profondità artistica richieste nel panorama internazionale. Il pubblico che li ha sostenuti era più affascinato dall’immagine che dalla musica, più attratto dal fenomeno che dalla sostanza. Il risultato? Un successo lampo, alimentato da hype e strategia, ma senza radici solide. E l’industria che li ha portati in alto sembra oggi pagare il prezzo di quella corsa alla visibilità immediata, che troppo spesso sacrifica la qualità e la longevità artistica.

È arrivato il momento di smettere di esaltare sempre le stesse cose, gli stessi volti, le stesse formule trite che il sistema televisivo continua a riciclare anno dopo anno. Se vogliamo davvero un rinnovamento musicale, dobbiamo iniziare a valorizzare gli artisti italiani che oggi propongono qualcosa di diverso, di autentico, di coraggioso. E questi artisti esistono, ma spesso vengono relegati ai margini, ignorati dai media e soprattutto dagli spazi che dovrebbero accoglierli.

In Italia, i palchi ci sono. I teatri, i locali, i festival. Ma chi li gestisce deve iniziare a prendersi la responsabilità culturale di aprire a chi ha qualcosa da dire, non solo a chi ha già lo sponsor dietro. Non possiamo continuare a destinare tutto il nostro spazio alla comfort zone televisiva mentre altrove, nei sotterranei, nei centri sociali e nei piccoli club, si sta ancora provando a fare vera musica.

E poi ci siamo noi. Il pubblico. Chi ama davvero la musica deve uscire di casa, andare ai concerti, scoprire artisti nuovi, rischiare di non capire subito. Perché se continuiamo a consumare solo quello che ci viene passato in TV, allora saremo complici della fine di tutto questo. La musica senza il suo pubblico non è niente. E noi siamo una parte fondamentale di questo gioco.

Ludovica Monte

Anche detta Fragola Brutale, classe 1996, romana fino al midollo. Sul comodino ho il Manifesto Anarchico da leggere come favola della buona notte e nel portafoglio un santino di GG Allin. Amo andare ai concerti, stare ore in libreria, scrivere ed essere polemica. Il mio film preferito è La Haine.

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