Loading

Quale futuro per i grandi festival? Abadir racconta il caso Sónar

In risposta ai legami finanziari con il fondo KKR, oltre 90 artiste e artisti hanno scelto quest’anno di boicottare il Sónar Festival, segnando un nuovo capitolo nella complessa relazione tra cultura, capitale e impegno politico. A promuovere la protesta è il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), una campagna internazionale e non violenta che denuncia le complicità economiche responsabili di violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Attraverso voci come quella del producer Abadir, si apre un dibattito fondamentale: quali responsabilità è chiamata ad assumere l’arte in un sistema culturale sempre più intrecciato con la finanza globale?


Sabato 14 giugno 2025, 12:11 appena scattate. Grazie al consiglio di un collega della redazione di Polvere, mi trovo nel delizioso cortile ventilato del Mescladís del Pou, un locale nel cuore del quartiere El Born di Barcellona, co-gestito da ex studenti dei corsi di inserimento lavorativo rivolti a persone in situazione di vulnerabilità, principalmente migranti, grazie al programma Cuinant Oportunitats

Sono arrivata a Barcellona solo da tre giorni e fino a tre settimane fa avevo un piano molto preciso su come spenderli, in cantiere dalla sera dell’8 novembre, alla vigilia del mio trentesimo compleanno, quando ho ricevuto in dono un biglietto per il Sónar FestivalNato nel 1994 da un’idea di Ricard Robles, Enric Palau e Sergio Caballero, il Sónar è stato uno dei primi grandi eventi europei a mettere in dialogo musica elettronica, arti multimediali, design e tecnologie avanguardistiche. Con la volontà di rendere accessibile l’arte contemporanea a un pubblico ampio, si propone come piattaforma glocal, capace di valorizzare tanto la scena artistica catalana quanto le realtà internazionali. Con l’introduzione del Sónar+D, il festival ha allargato il suo impegno nel campo dell’innovazione tecnologica, esplorando le intersezioni tra scienza, intelligenza artificiale, media immersivi e pratiche artistiche. 

Il Sónar ha dichiarato di abbracciare con decisione le tematiche legate alla sostenibilità ambientale e sociale. Ed è proprio da qui che quest’anno è partito il cortocircuito, perché – come spesso accade – un conto è allinearsi a determinati valori nella teoria, un altro è metterli in pratica. La prima crepa nell’immagine idilliaca che avevo del Sónar mi è arrivata dalla musicista e produttrice Loraine James. Curiosando sul suo profilo, un post ha catturato la mia attenzione: una lettera aperta pubblicata il 16 maggio, firmata da oltre 70 artisti – tra cui la stessa James – che chiedevano al Sónar di prendere le distanze dai legami con il fondo KKR e di adottare politiche etiche nella programmazione e nelle partnership. Le firme sono rapidamente cresciute fino a superare le 95, come riportato da Residen Advisor.

Il caso è esploso in seguito alla rivelazione che Superstruct Entertainment, società madre del festival dal 2018, era stata a sua volta acquisita nell’ottobre 2024 da un consorzio guidato dalla KKR (Kohlberg Kravis Roberts), una delle più grandi società di investimento globale. Questa notizia ha scatenato reazioni dure da parte della comunità artistica e attivistica, poiché KKR è stata criticata per i suoi investimenti in aziende produttrici di armi, nel gasdotto Coastal GasLink e in corporazioni israeliane che operano nei territori palestinesi occupati. Il movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), insieme alla Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI), ha rapidamente assunto la guida della protesta, definendo la relazione del Sónar con KKR come una “complicità involontaria nel genocidio” e chiedendo il boicottaggio del festival.

Inizialmente, il Sónar ha risposto con un comunicato che tuttavia non menzionava esplicitamente né Gaza, né Israele, né la KKR. Il 19 maggio ha rilasciato una seconda dichiarazione in cui esprimeva solidarietà con la popolazione civile palestinese a Gaza e dichiarava di prendere le distanze dagli investimenti di KKR. Il 29 maggio, è stata pubblicata sul sito una pagina con le FAQ e la possibilità, per chi fa “obiezione di coscienza”, di chiedere un rimborso completo. 

Il 5 giugno 2025, il festival ha confermato ufficialmente che 38 nomi, tra artiste e artisti (qui la lista) avevano annullato le loro esibizioni, ma è importante tenere conto che PACBI ha altresì dichiarato che almeno 59 partecipanti si sono ritirati, una discrepanza che potrebbe derivare dal conteggio di atti con più artisti come partecipanti individuali. Ma l’effetto del boicottaggio ha coinvolto anche una parte consistente del pubblico. Numerosi spettatori hanno infatti scelto di non partecipare al festival, preferendo farsi rimborsare il biglietto e devolvere l’importo a cause legate alla Palestina o ad altre iniziative personali.

A Barcellona, il Sónar ha dato l’impressione di un evento isolato: chiuso nei suoi due spazi istituzionali — Fira Montjuïc di giorno e Fira Gran Via di notte — ha lasciato poco o nulla emergere nella vita della città. Più che nello spazio urbano, il festival ha preso forma soprattutto nei feed e nelle storie di Instagram. È stato infatti proprio sui social che si è manifestata una delle contraddizioni più evidenti di questa edizione: un post pubblicato dal profilo ufficiale del Sónar durante il set dei Modeselektor per Boiler Room — piattaforma che, come il festival, è proprietà di Superstruct Entertainment — mostrava sullo schermo, dietro la consolle dei dj, la bandiera palestinese e la scritta «Free Palestine». Qualche giorno dopo, il post è stato modificato: eliminata la prima immagine, scomparso il riferimento alla Boiler Room. Resta uno screenshot a testimoniarne la versione originale, condiviso da diversi attivisti online.

Intanto, in altri angoli di Barcellona, non sono mancate le alternative. Tra queste, la rassegna Queer Cinema for Palestina, ospitata al Vall de Can Masdéu, e Off Nada, evento organizzato da artiste e artisti locali che hanno aderito al BDS. Autogestite, a scopo benefico e andate sold out, queste iniziative hanno rappresentato un segnale concreto di discontinuità culturale e politica rispetto alla cornice ufficiale.

Il 12 giugno 2025 a mezzogiorno, nella mia stanza di circa quindici metri quadrati in un ostello su Carrer de la Boqueria, ho avuto modo di approfondire lo sviluppo della vicenda grazie a una conversazione con Rami Abadir, tra i primi ad allinearsi alle direttive del BDS, che ora riporto a voi. 

Ciao Rami, grazie per questa intervista. Per iniziare, ti andrebbe di raccontarci qualcosa di te?
Certo. Sono un produttore e DJ, ma anche critico musicale: scrivo per Ma3azef, una rivista araba dedicata alla musica, e mi occupo soprattutto di elettronica. Fino al 2018 lavoravo come ingegnere nel settore petrolifero. Ci sono rimasto dodici anni, ma sentivo che non era la mia strada. Non ero felice e desideravo avvicinarmi davvero alla musica, che già da tempo era una parte importante della mia vita. In Egitto però non è facile fare questo tipo di salto: tra costi dei voli e difficoltà nei booking, le opportunità sono limitate. Quando ho avuto la possibilità di iscrivermi a un master in Germania, l’ho colta al volo. Ho scelto un corso in Design dei media digitali a Brema, poi mi sono trasferito a Berlino. Il programma univa musica, suono, teoria critica e studi culturali. Ho iniziato nel tardo 2018, a 42 anni. Tornare a studiare dopo 13 anni, dopo essermi laureato in ingegneria nel 2005, è stato stimolante e sfidante. Una volta finito il master, ho potuto finalmente dedicarmi alla musica in modo professionale. Forse avrei potuto farlo anche dieci anni prima, ma ho aspettato il momento giusto per uscire dal mondo corporate e cambiare vita.

Attualmente ti trovi in Europa o in Egitto?
A Berlino. Mi sono trasferito nel 2020, all’inizio della pandemia, quando l’università ha annunciato che le lezioni sarebbero passate online.

Parliamo del Sónar Festival. Eri parte della line up, ma hai scelto di ritirarti dopo aver scoperto il coinvolgimento del fondo KKR. Quando e come sei venuto a conoscenza del legame tra KKR, Superstruct e Sónar?
L’ho scoperto a gennaio. Avevo presentato un pitch a ottobre, ma all’epoca non sapevo nulla di KKR. A gennaio ho ricevuto segnali positivi dal festival e proprio allora ho saputo della questione.

Avevi già suonato al Sónar in passato?
No, mai. Ho suonato a Barcellona, ma al Primavera Sound.

La decisione di ritirarti è stata immediata o ci hai riflettuto a lungo?
Ci ho riflettuto. Le prime due settimane di gennaio ero in Egitto con la famiglia, poi a metà mese sono tornato a Berlino e ho iniziato a informarmi su KKR. In Egitto, la questione Palestina è una causa che sentiamo molto vicina sin da bambini. Quando ho capito cosa rappresenta KKR e come opera, ho iniziato a farmi domande. Non immaginavo che un festival come il Sónar potesse essere coinvolto in queste dinamiche. Ma la realtà è che fondi come KKR comprano aziende – anche quelle che organizzano festival – per aumentarne il valore e rivenderle, proprio come nel settore petrolifero.
A febbraio ho preso la questione più sul serio. Stavo lavorando a documenti e visti per un progetto in Cina, ma dentro di me pensavo: «Se non ci sarà un movimento collettivo, ha senso che mi ritiri da solo?». Da lì ho iniziato a parlare con altri artisti e con il BDS, che mi ha confermato che stava lavorando a una campagna.

Hai avuto modo di confrontarti con l’organizzazione del festival dopo aver annunciato il tuo ritiro?
Sì, una sola volta. Era una conversazione preliminare, per metterli al corrente che il BDS/PAGBI stava per lanciare una campagna. PAGBI non agisce mai in modo impulsivo, ma indaga, si pone domande, definisce criteri. Nel confronto con il Sónar erano presenti due persone del team, ma non avevano ruoli decisionali. Mi hanno detto che la questione era già oggetto di discussione interna, con meeting frequenti anche a livello dirigenziale, e che volevano ascoltare la mia posizione. Non posso entrare troppo nei dettagli, perché si parlava anche di strategie interne. Ma mi hanno confermato di sapere del coinvolgimento di KKR e che la loro squadra non era felice della situazione. Si sono detti contrari al genocidio, com’è ovvio, ma non hanno preso una posizione ufficiale come istituzione.

E tu, a quel punto?
Ho detto chiaramente che, se il movimento BDS avesse chiesto il boicottaggio, io lo avrei seguito senza condizioni. Dopo quel confronto ho scritto una dichiarazione pubblica e, prima di pubblicarla, ho informato il team del Sónar. Loro hanno risposto: «Ok, informeremo il team e rimuoveremo il tuo nome dal programma». Fine della storia.
Ci tengo a dire che ho scritto quella dichiarazione con attenzione. So che molte persone che lavorano al Sónar non hanno colpe dirette e non volevo accusare i singoli. Lo stesso vale per gli artisti che non hanno aderito al boicottaggio: ognuno ha le sue motivazioni.

Cosa ha comportato per te questa scelta? Il Sónar è una vetrina importante per un artista.
Onestamente? Mi sento sollevato. Prima di pubblicare la dichiarazione ci pensavo continuamente, mi consumava. Ma una volta detto pubblicamente il perché e il percome, mi sono sentito più leggero. Ogni volta che un altro artista annunciava il ritiro, quel sollievo aumentava: diventava un’azione collettiva. PAGBI ha gestito tutto con pazienza e lucidità, mentre Sónar ha risposto con lentezza, accontentando una richiesta per volta. Anche nel rapporto con gli artisti c’è stata poca trasparenza. Io ho avuto un solo incontro, poi nessun altro contatto. Eppure, in alcune dichiarazioni pubbliche si è detto che il Sónar ha dialogato con gli artisti. Posso garantire che non è successo con tutti. Hanno iniziato a muoversi solo quando alcuni headliner hanno annunciato il ritiro.

Dopo la tua dichiarazione, stai valutando ulteriori azioni per coinvolgere il pubblico e aumentare la consapevolezza?
Credo nella forza del lavoro collettivo. Se leggi le nostre dichiarazioni, vedrai che le motivazioni sono comuni, molto chiare. E questo ha già generato consapevolezza. A Berlino ho parlato con persone che non avevano mai sentito parlare di KKR o Superstruct. All’inizio, quando dicevo che mi sarei ritirato, molti mi guardavano come fossi pazzo, convinti che mi sarei rovinato la carriera. Ma io detesto sentirmi ricattato. L’idea che il mio nome debba restare in una line up per non perdere opportunità economiche mi disgusta. Per me, la dignità vale più di tutto. È una scelta personale, certo, ma anche collettiva. Il contesto è gravissimo: ogni giorno vediamo immagini atroci sui nostri telefoni. Non è il momento di fare dibattiti filosofici. Le conseguenze ci sono, ma io ho deciso di prendere posizione. E lo rifarei.

Jelena Bosnjakovic

Mix italo-balcanico. Cerco storie tra le frequenze. Può la musica essere un metro di giudizio? Sì, siamo ciò che ascoltiamo.

Loading
svg
Navigazione Rapida
  • 01

    Quale futuro per i grandi festival? Abadir racconta il caso Sónar