Lo scorso 8 novembre i Proliferhate, nota death progressive metal band torinese attiva da oltre un decennio, con tre album alle spalle e una lunga serie di esibizioni live in Italia e all’estero, hanno salutato al Blah Blah il pubblico di casa dopo oltre un anno di assenza, chiudendo un cerchio di due anni di lavoro, in attesa di aprirne un altro nel prossimo futuro. È stata l’occasione per scambiare con Omar Durante, frontman della band che annovera anche Lorenz, Axl e Daniele – rispettivamente chitarra, basso e batteria – per fare il punto della situazione su alcune tematiche molto sentite dai musicisti, dagli organizzatori di eventi e da chi di fatto fruisce del prodotto finale, il vero motore di tutto, ovvero il pubblico
Omar, un concerto speciale, un ritrovo di amici e un arrivederci: è così?
Esattamente, perché siamo tornati ad esibirci a Torino, casa nostra, in un posto a noi molto caro. Pur essendo costantemente proiettati al futuro ed entusiasti di scrivere e proporre brani sempre nuovi, per questo evento abbiamo voluto coccolare i nostri fan della primissima ora, riproponendo una selezione di brani tratti dai primi lavori della band, ovvero In No Man’s Memory del 2015 e Demigod Of Perfection del 2018, oltre all’ormai consolidato Wake Before The Dying Sun, concept uscito un anno fa per RecLab Studios con la produzione di Larsen Premoli. Questa data è stata altresì importante perché dopo questo concerto ci chiuderemo per un po’ di tempo in studio per riordinare le idee e cominciare la produzione del nostro quarto album. Inoltre, siamo stati molto orgogliosi di fare da Cicerone a una grande nuova realtà, i Toliman, una band davvero molto interessante che consiglio a tutti di ascoltare, perché hanno dimostrato sin da subito un indubbio valore artistico, con brani caratterizzati da un’elevata complessità tecnica, unita a una forte componente melodica.
Ho ancora negli occhi alcune storie Instagram che avete pubblicato qualche mese fa e mi sono ripromesso di farvi questa domanda: che ci faceva una metal band a bordo di una crociera?
Beh, facile, per sbarcare il lunario in estate suoniamo liscio per i turisti! A parte gli scherzi, lo scorso giugno abbiamo partecipato al primo viaggio del progetto Rock Experience, ovvero una traversata in mare a tema rock/metal, da Civitavecchia a Barcellona e ritorno, in cui per quattro giorni si sono esibiti tantissimi artisti in diverse venue allestite in vari punti della nave, che hanno avuto la possibilità di incontrare addetti ai lavori, agenzie di booking, giornalisti di settore e gente varia sempre dell’ambiente musicale. Un’esperienza particolare, davvero molto interessante, in cui abbiamo suonato, conosciuto un sacco di persone provenienti da tutta Italia e partecipato a conferenze e seminari durante i quali abbiamo affrontato temi e problematiche comuni. A tal proposito, mi preme ringraziare Davide Mozzanica, titolare del Rock’N’Roll di Milano, che ci ha invitato a bordo selezionandoci tra tantissime band.
A dispetto di quanto possa immaginare un profano, che spesso associa il genere metal a un veicolo di messaggi violenti, questo “odio proliferante” richiamato dal nome della vostra band è in realtà una constatazione delle brutture della nostra società, non certamente un auspicio affinché l’odio possa dilagare ulteriormente.
Pur sottolineando che la scelta di questo nome ha radici lontane ed è stato scelto da ragazzini più o meno consapevoli del loro futuro percorso, devo dire che in realtà è diventata un’etichetta che ha acquisito nel tempo un significato sempre più maturo e una profondità che ci rappresenta appieno.
Siamo in un momento storico in cui l’odio è presente in dosi massicce, in qualsiasi campo. Per carità, è un sentimento umano, che prima o poi a tutti capita di provare, con forme e intensità differenti. È anche un sentimento che richiede dosi massicce di impegno mentale e fisico, che è davvero un peccato sprecare senza riuscire ad incanalarle in progetti utili al benessere personale e della società. Ecco, tra le nostre missioni artistiche c’è senza dubbio quella di provare a filtrare le energie negative di cui siamo bersaglio quotidianamente e riversarle nella creazione di un prodotto artistico con cui intrattenere le persone. Praticamente un carburante alternativo per l’ispirazione, un tentativo di utilizzo costruttivo – e mai distruttivo – dell’odio.
Proseguendo nel solco dei falsi miti sul metal, affrontiamo il discorso dei testi. L’ascoltatore superficiale si lascia trasportare dalla potenza della musica ma non si ferma a riflettere sui messaggi che vengono veicolati. Perché, invece, è importante ascoltare cosa viene cantato e, per gli artisti, scrivere testi di valore?
È una questione che come band ci sta davvero a cuore, perché la nostra prassi creativa prevede il medesimo livello di cura di qualità nella definizione della parte musicale e dei testi. Può sembrare una frase banale, una considerazione scontata, ma non è così. Negli ultimi anni noto un impoverimento complessivo della qualità dei testi, evidente proprio nella stessa scelta dei vocaboli, scontati e banali purché stiano in metrica. Problema che si manifesta in maniera ancora più accentuata nella musica pop, in cui si ha l’opportunità di raggiungere e arricchire un pubblico molto vasto con una proposta culturalmente più elevata e invece ci si rifugia sempre in pensieri semplici, comodi e spesso molto banali. Con la facilità e la rapidità con cui al giorno d’oggi si può fruire di un contenuto musicale, la trovo davvero un’occasione sprecata.
Un vero peccato, ancor di più per chi scrive in italiano, una lingua che ti consente di esprimere un concetto con milioni di possibilità diverse, a differenza dell’inglese, più asciutto e pragmatico. Per questo, spesso nei nostri testi tendiamo a utilizzare entrambe le lingue: l’italiano per le sue molteplici sfumature che ti consentono di restituire al meglio alcune emozioni, l’inglese per la sua funzionalità e praticità strutturale.
A proposito di qualità, nel vostro ultimo album i vostri testi hanno una fonte di un certo spessore.
Vero, le canzoni di Wake Before The Dying Sun sono liberamente tratte dall’opera di Dino Buzzati Sessanta Racconti, uscita nel 1958. In pratica, ogni traccia corrisponde a un racconto, selezionato e riadattato in modo che l’opera completa risulti un concept album, formula che abbiamo utilizzato anche nel precedente lavoro in studio, in cui avevamo “scomodato” il Faust di Goethe. Il ricorso a grandi esponenti del mondo della letteratura si sposa poi perfettamente con il nostro flusso creativo, perché spesso tendiamo a lavorare per scene, ovvero isolando alcuni momenti per cercare di raccontarli al meglio con musica e parole, proprio come se fosse un’opera letteraria, teatrale o cinematografica.
Quanto è difficile continuare ogni giorno a diffondere il messaggio artistico, la cultura che è alla base di un genere, in un momento come quello attuale in cui il concetto di band sembra estinto, dominano le produzioni singole con basi precostituite e, soprattutto, è sempre più difficile trovare club che facciano musica dal vivo?
Certamente quello che ci fa andare avanti, la conditio sine qua non, è la passione smisurata. È una condizione interna, viscerale, che riesce a farti andare oltre ai soldi, alla fatica, al tempo. Fare musica è un bisogno, una necessità primaria, un’esigenza al limite della patologia, nel senso che io personalmente quasi mi sento male se non tocco almeno una volta al giorno la chitarra, se non faccio anche solo un piccolo riff. In questo senso, sono contento di aver trovato altre tre persone che – in tutto e per tutto – condividono con me questa condizione. Anche perché, per tornare al punto centrale, sembra che la musica, almeno nel mainstream, non sia più un gioco di squadra, bensì l’esaltazione dell’individualismo. Sono io al centro della scena, sono io che canto, magari su basi che qualcuno ha progettato su Logic in qualche remota cantina, sono io che faccio i soldi, sono io il figo e voi non siete nessuno.
In realtà, mi sento di restare ancora molto fedele al lavoro di squadra, perché il confronto, lo scontro, le discussioni, i differenti punti di vista ci fanno maturare come persone e, al contempo, rendono maturo e più completo anche il prodotto finale. L’arte del compromesso che si sviluppa all’interno della band ti fa davvero crescere e migliorare come essere umano, perché si impara a gestire dinamiche che sicuramente si ritroveranno in altri contesti, dall’ambito lavorativo a quello familiare e sentimentale. Condividere sempre con le stesse persone, magari due o tre volte a settimana, gli stessi spazi, la stessa sala prove, lo stesso furgone ti fa capire in automatico che non sei tu il protagonista. Il progetto (comune) è il vero protagonista, ed è un peccato constatare che nel grande mercato musicale che va per la maggiore sono sempre meno le band che occupano i posti alti delle classifiche. Questo accade anche perché un gruppo ha bisogno di tempo per formarsi, per amalgamarsi, per trovare la giusta strada e nel mondo odierno non c’è più la volontà di investire tempo, si vuole tutto e subito, con l’enorme rischio di bruciarsi all’istante.
Sei abituato a stare sul palco ma ti destreggi quotidianamente anche sotto al palco e dietro le quinte nell’organizzazione di eventi. Da ciò che percepisci, c’è ancora voglia di live, esiste ancora una domanda di concerti, soprattutto in una città come Torino, che in passato è stata la patria della musica underground?
Da quando collaboro con LM Production, agenzia fondata dal mio amico e compagno di band Lorenzo, ho vissuto e affrontato vari momenti di alti e bassi. Non molto tempo fa ho fatto un giro in un centro sociale del Torinese dove suonavano tre gruppi emergenti e là, con stupore ma anche grande soddisfazione, ho trovato un pubblico numeroso di ragazzi molto giovani con un’enorme voglia di partecipare, di divertirsi, di sfogarsi, di imporsi attraverso la musica. Il fatto che questi ragazzi, senza un soldo, senza aiuti, si siano rimboccati le maniche e siano riusciti a organizzare una serata di musica che ha attratto una marea di loro coetanei, nonostante fosse fuori città, quindi nemmeno troppo semplice da raggiungere, mi ha quasi commosso, mi fa ben sperare e, quindi, mi fa rispondere affermativamente alla tua domanda. Sì, c’è ancora voglia di musica dal vivo, al di là di Spotify e di tutte le piattaforme, però bisogna migliorare notevolmente dal punto di vista della comunicazione degli eventi, nel senso che non si può vivere di soli social e ci vuole più coraggio da parte di chi organizza o, ancor di più, di chi ospita le serate nel dare fiducia ai prodotti di valore e non solamente ai nomi altisonanti. Posto quindi che la domanda esiste, l’obiettivo è riuscire a intercettarla in maniera attraente ed efficace.
In effetti, per chi fa musica a livello emergente, la diffidenza del gestore di locali è una barriera all’ingresso non indifferente. In più c’è l’annosa questione delle cover/tribute band…
Certo, però anche in questo caso il discorso è il medesimo. Di gruppi tributo o cover ormai ne esistono una marea, quindi alla fine cosa fa il padrone del locale? Sceglie quello che costa di meno, a prescindere dalla qualità. Ma siamo sicuri che il gruppo che costa meno mette in scena uno spettacolo di livello e che porti abbastanza pubblico? No, quindi siamo di nuovo punto e a capo. È finita la trippa anche per chi si cimenta in tributi per guadagnare di più. Allora penso e spero che prima o poi si tornerà a lasciare spazio e premiare chi ha veramente qualcosa da dire in maniera autentica. È vero, il locale è un’attività commerciale e ci sono mille spese di gestione, però se si programma un cartellone di qualità, con una certa frequenza di eventi, con un buon impianto audio e luci, alla fine la gente torna sicuramente perché ha ricevuto un prodotto di valore e sa che domani sarà lo stesso, è matematico.
Altro tema caldissimo, non solamente in ambito musicale, è il dilagare dell’Intelligenza Artificiale: possiamo lasciarci con un messaggio di speranza, ovvero che si tratta solamente di uno straordinario supporto all’essere umano, le cui capacità creative rimarranno sempre e comunque determinanti?
Possiamo dirlo eccome, anzi, me lo tatuerei. È un tema che ultimamente sto affrontando spesso con amici e persone che gravitano nel settore musicale e ho sviluppato la convinzione che l’AI possa far paura solamente a quegli artisti che oramai hanno esaurito le idee. So che molte major hanno già firmato accordi commerciali con le aziende che sviluppano tools per creare musica con l’Intelligenza Artificiale. Il motivo è molto semplice: per creare il motivetto dell’estate o la hit del momento che fa fare cassa immediata per poi finire nel dimenticatoio. Perché mai dovrei pagare dei professionisti del suono, degli studi professionali, dei veri musicisti, quando mi basta processare tutto con una semplice applicazione?
Quindi a preoccuparsi dev’essere proprio l’artista che fa musica di consumo, quella sentita e risentita milioni di volte, in cui più o meno si utilizzano gli stessi tre accordi e gli stessi giri armonici, non certamente le band che arrivano a comporre un brano dopo un lungo lavoro di sviluppo di un’idea, non il cantautore che racconta storie di vita con un taglio unico, non chi appartiene a un genere di nicchia che ha le sue peculiarità specifiche. Anche perché chi ascolta questi artisti “originali” ha poi la necessità e il desiderio di vederli all’opera dal vivo, godere dell’esperienza completa. È un pubblico più elevato e con una formazione culturale molto più vasta, che non si accontenta di andare a sentire uno che canta su una base, ma vuole capire da dove nascono quelle note e quelle parole, qual è il suo vissuto, vedere la genuinità della proposta e la sincerità dell’artista. Poi, in generale, credo che in futuro si arriverà a un punto di saturazione tale nell’utilizzo di tutti questi programmi scorciatoia che si ritornerà in maniera naturale ai “vecchi” metodi creativi, allo scambio e alla condivisione di idee tra persone reali.