La storia dei quattro concerti bolognesi dei Radiohead non riguarda solo chi è riuscito ad assistervi, ma anche chi ne è rimasto fuori: esclusi dal sistema dei biglietti, delusi dalle posizioni sulla Palestina, scoraggiati dai prezzi o semplicemente stanchi. Un evento che, invece di unire, ha creato disparità. Per questo è importante dare voce anche a chi non c’era e che ora vede Thom Yorke e compagni come una band più distante e meno imprescindibile di prima
Spiace rovinare il coro su quanto siano stati straordinari i concerti dei Radiohead a Bologna. Non c’è dubbio che siano stati esattamente così come tutti dicono. Ma i quattro live all’Unipol Arena non fanno parte soltanto del vissuto di chi è riuscito a goderne almeno uno. Quei concerti sono un episodio che fa parte anche delle vite degli esclusi: i tagliati fuori dal meccanismo dei biglietti, i delusi dalle ambigue posizioni su Gaza, gli scoraggiati dai costi di ingresso. Detta in modo brutale: gli sfortunati, gli incazzati, i poveri… e una nuova, inedita, categoria: gli stanchi, quelli sfiniti di inseguire i clic, di passare le ore in code digitali, di attendere dei sorteggi per ricevere un codice. Se, come il sottoscritto, vi sentite parte di questa categoria e rinuncereste a un concerto atteso pur di non sopportare questa tortura, siamo ormai in tanti, più di quanti pensiamo.
L’ultimo argomento di discussione in ordine di tempo, infatti, è stato il meccanismo di vendita dei biglietti che aveva l’intento di prevenire bot e rivendite secondarie a prezzi moltiplicati. Il meccanismo prevedeva nell’ordine: 1) una preregistrazione online per 2) partecipare al sorteggio per 3) ottenere un codice che dava la possibilità di 4) accedere alla prevendita su Ticketmaster. Abbiamo passato i giorni ad attendere un sms di accettazione della nostra candidatura, abbiamo fatto il pugnetto ed esclamato sì! quando (e se) è arrivato. Forse anche voi, se avete cercato di accedere alla piattaforma pronti al clic nel secondo spaccato in cui iniziava la vendita, siete entrati in una coda virtuale con decine di migliaia di utenti davanti. E forse anche voi avete fallito la conquista del biglietto, perché al termine dell’attesa erano già esauriti. Oppure perché semplicemente, legittimamente, umanamente, a un certo punto avete gettato la spugna.
Ok, si sa, alla fine i biglietti saltano sempre fuori. Alcuni, se non riescono più ad andare, li rimettono in vendita online, per la gioia della piattaforma di ticketing che sgrassa altri euro con la commissione di resale. Altri biglietti saltano fuori da chi cerca amici e amici degli amici a cui rivendere i biglietti. In tanti abbiamo ricevuto proposte di acquisto di ingressi inutilizzati. Rimane leggendaria quella volta in cui ci fu un’incredibile corsa alla rivendita dei biglietti dei Radiohead a pochi giorni dal concerto; stavolta non si sono raggiunti quei livelli, ma comunque le disdette giravano e chi voleva andare a tutti i costi un biglietto lo trovava. Ma ovviamente le persone hanno una vita e non è semplice programmare una trasferta con poco anticipo. Oppure semplicemente l’entusiasmo iniziale si spegne. Gli stanchi mollano. Qualcosa si sfilaccia nel patto di fiducia tra fan e artista e non lo si può più ricucire com’era prima.
Teoricamente non c’è nulla che non va nei Radiohead e nel loro ritorno sul palco. Le posizioni ambigue su Gaza? Vero, ma si può rispondere che ci sono in gioco affetti personali (la compagna di Jonny Greenwood è israeliana, così come alcuni artisti con cui collabora) e a tutti noi in fondo capita di amare artisti dagli orientamenti molto distanti dai nostri e non per questo ci rifiutiamo di ascoltare la loro musica o andare ai loro concerti. Il prezzo alto dei biglietti? Vero, ma si tratta di cifre che oggi sono nella media per un concerto di questo calibro, sono andati a ruba in pochi minuti, avrebbero potuto tranquillamente venderli a prezzo doppio, avrebbero fatto sold out ugualmente guadagnando molto di più. Il cervellotico meccanismo dell’acquisto dei biglietti? Vero, ma se lo scopo era limitare i bot e il secondary ticketing, in buona parte ha funzionato e, come già detto, se volevi a tutti i costi un biglietto avevi buone possibilità di trovarlo nella tua bolla di contatti.
Eppure, per quanto soggettive possano sembrare le motivazioni che in questa occasione hanno reso Thom Yorke e compagni così distanti da molte persone, si tratta di motivazioni concrete che animano una buona fetta del loro (ex?) pubblico, che si è sentito tradito. Il complicato meccanismo dei biglietti – che, contrariamente alle aspettative iniziali, è stato quello che ha fatto più discutere – nel suo intento etico di umanizzare gli spettatori li ha per certi versi disumanizzati, rendendoli criceti in corsa per il codice, il messaggio di conferma, il clic e così via, in un misto di angoscia e rassegnazione: praticamente, come essere dentro a una canzone di OK Computer. È paradossale come questo sia accaduto proprio con una band come loro, che spesso ha cantato l’alienazione dell’umanità tecnologica e digitale. Per questo lodevole intento di sconfiggere i bot stiamo diventando i bot di noi stessi.
È stato un concerto esclusivo, inteso letteralmente come contrario di inclusivo. Per questo vale la pena parlare a nome degli assenti, ovvero la maggioranza silenziosa rimasta a casa a causa dei motivi più disparati – che fossero ideologici, economici, digitali o quant’altro – e provare a dire una cosa: da una parte abbiamo rosicato e provato invidia, ma dall’altra abbiamo sopportato queste giornate con ammirevole pazienza, infinita noia e rassegnata stanchezza. Vogliamo un applauso? No. Ma c’eravamo anche noi, è stato un concerto altrettanto nostro, siamo stati egualmente protagonisti in questa storia, che possiamo chiamare la storia della band che sta costruendo più distanze possibili tra sé e il pubblico. In quanto esclusi, nostro malgrado abbiamo reso esclusivo, e ancora più prezioso, il concerto al quale una piccola parte della coda digitale è riuscita ad accedere. Le tante foto, video, storie geolocalizzate nell’Unipol Arena che affollavano i social sembravano dire tante cose: «eccomi, sono felice a questo concerto» ma anche «eccomi, sono riuscito a trovare un biglietto per questo concerto». E se facevi bene attenzione potevi anche percepire il contegno discreto di chi pensava «eccomi, mi sento un po’ in colpa per essere riuscito a essere a questo concerto».
L’esperienza Radiohead è stata una sorta di profusione collettiva di energie psico-tecno-economiche, non diversamente da qualunque altra band da maxi concerto in stadi, arene e ippodromi, però con maggiore selezione all’ingresso. Ha creato disparità e divisioni, invece di unire. È stato un evento avvolto da un silenzioso karma negativo, che forse i presenti non hanno avvertito, ma ha fortemente ridimensionato l’aura da semidei che ha sempre avvolto la band di Oxford. Qualcuno diceva che bisognava boicottare i Radiohead, invece sono loro che hanno boicottato noi. Ora sono un po’ più distanti, li riscopriamo quasi estranei, forse la nuova visione che abbiamo non è così diversa da qualunque altra band. Pazienza, è andata così, è una storia iniziata storta che non poteva raddrizzarsi. È stato per sua stessa natura un tour riservato ad affluenze limitate; non potevamo nemmeno pretendere che facessero più concerti se non avevano intenzione di farne, salvo eventuali nuovi annunci. Dopo aver mancato Bologna 2025, andreste a un nuovo concerto dei Radiohead?

