Lunedì 7 aprile, lo spazio Dorado ha ospitato un artista che ha fatto della vulnerabilità la sua cifra stilistica. Mark Eitzel, fondatore e voce degli American Music Club, è approdato a Torino per una delle rare date italiane del suo tour europeo, il primo dopo otto anni di assenza
Mark Eitzel è una figura allo stesso tempo anomala e imprescindibile del songwriting statunitense. Nato in California nel 1959 ma cresciuto tra Taiwan, Okinawa e l’Inghilterra, ha fatto del disincanto poetico la sua forma d’arte. A partire dagli anni Ottanta ha costruito – prima con gli American Music Club e poi da solista – un universo musicale sospeso tra indie rock, folk e slowcore, dove il dolore si fa racconto e la malinconia diventa confessione. Con gli AMC ha pubblicato dischi cult come California (1988), Everclear (1991) e San Francisco (1994), capaci di conquistare pubblico e critica per la loro stratificazione sonora e la scrittura spietata. Non a caso, nel 1992 Rolling Stone lo ha consacrato miglior cantautore dell’anno, mentre The Guardian lo ha definito «il più grande paroliere americano vivente».
La carriera solista, avviata in parallelo all’attività della band, è stata altrettanto feconda e variegata. Album come 60 Watt Silver Lining (1996) e West (1997) – quest’ultimo in collaborazione con Peter Buck dei R.E.M. – mostrano un Eitzel capace di reinventarsi, flirtando con il jazz, il pop orchestrale e la canzone d’autore più intima. Nel 2017 ha pubblicato Hey Mr. Ferryman, prodotto da Bernard Butler (ex Suede), confermando la sua capacità di essere moderno senza perdere il contatto con la propria vena poetica. I temi sono quelli che, prima o poi, toccano tutte e tutti: la solitudine, il fallimento, l’amore perduto, la tenerezza in un mondo cinico. Ma anche una certa ironia salvifica, un umorismo sottile che si insinua tra le crepe del dolore. In questo Eitzel è un narratore straordinario, che sembra volerci dire: «so cosa provi, ci sono passato anch’io».
Il concerto a Dorado – ex magazzino nel quartiere Aurora, a Torino, riconvertito in spazio polifunzionale per eventi e progetti culturali grazie all’intervento di Stratosferica – è stato un’occasione rara per entrare nel suo mondo. Un universo che Mark ci ha gentilmente aperto, rispondendo anche ad alcune domande.
Ti ricordi la prima canzone che hai scritto? Cosa ti ha spinto a farlo?
Tutto quello che ricordo era un pensiero adolescenziale a metà. L’ho scritta perché puntavo a diventare famoso.
Quando scrivi una canzone, qual è la scintilla che mette in moto il tuo processo creativo?
La risposta, in fondo, è già contenuta nella domanda, ma preferisco parlare di seme piuttosto che di scintilla. Le scintille si spengono in fretta, mentre un seme può crescere e trasformarsi in qualcosa di inaspettato. Parto sempre da qualcosa di vero che mi è accaduto, raccolgo i pensieri che quel fatto genera e inizio a scrivere. Da lì comincia un processo di esplorazione: cerco di capire davvero cosa voglio dire e come dirlo in modo coerente con quell’intuizione iniziale, che arriva sempre da un’esperienza vissuta o da qualcosa che mi è stato detto. Senza una radice autentica, una verità da cui partire, una canzone per me perde senso. Non riuscirei a cantarla.
La forza delle tue parole ti ha reso un cantautore riconosciuto e amato. Ci sono stati autori o autrici che hanno influenzato il tuo modo di scrivere?
Sono stato influenzato da ogni artista che ho ascoltato. Alcuni, come Joni Mitchell, Neil Young ed Elvis Costello, mi stanno particolarmente a cuore. Non seguo un approccio accademico, ciò che davvero mi colpisce è la musica che riesce a ispirarmi a scrivere. In questo periodo mi succede con Molina, Richard Swift, Nick Drake e i Joy Division.
Le tue canzoni spesso toccano la fragilità umana e offrono osservazioni taglienti sul mondo. Quanto è importante per te affrontare temi politici o sociali nella tua musica?
Ci provo ad affrontarli, ma mi ritengo troppo ignorante per commentare le verità sempre mutevoli dei politici e degli attivisti. Vedo il fascismo crescere negli USA e odio i bulli da che ho memoria, ma voglio solo mostrare loro uno specchio, non giudicarli. Suona come una scusa, e forse lo è, ma ogni volta che ci provo mi sembra di sbagliare. È arroganza pensare di poter fare tutto. Anche se Dylan poteva, e lo fa.
C’è qualcosa nel mondo di oggi che ti disturba o affascina così tanto da volerlo trasformare in canzone?
Solo il fatto di esserne in mezzo.
A Dorado, Eitzel porta con sé un repertorio che attraversa quarant’anni di musica, pescando a piene mani tanto dal repertorio degli American Music Club quanto dai lavori da solista. Il concerto, eseguito interamente in acustico, è un tuffo nel cuore nudo della canzone: intima, cruda, senza orpelli. Nonostante una tosse persistente che lo costringe più volte a fermarsi, la sua voce rimane limpida, profonda, presente. Ogni imperfezione tecnica diventa parte della performance, che a tratti sembra fondere teatro e jam session da pub. Nello scambio con il pubblico, la sua ironia si traduce più spesso in una smorfia che in un sorriso. Come quando canta: «I want to get fucked up, I want to end up someone else», e non sai se ridere o commuoverti.
In un panorama dove la musica d’autore rischia spesso di scivolare nella posa, Eitzel incarna l’anima più autentica di quella che potremmo definire un’attitudine indie. Sbagliare gli accordi, stonare una nota, commentare, chiedere scusa. E poi ricominciare, comunicando con la leggerezza di chi si concede senza cercare approvazione. Non è una questione di stile, è una questione di verità.