Ieri sera, il Magazzino sul Po di Torino ha ospitato sul palco una band che si fa portavoce di un progetto tanto particolare quanto immersivo. Parliamo di Musicoterapia Adulti, un gruppo nato dall’estro di tre ben noti musicisti della scena romana contemporanea: Niccolò Contessa – già ampiamente conosciuto per il suo progetto I cani – al sintetizzatore polifonico, Marcello Newman alla chitarra elettrica e Pietro Guiso alla batteria. L’evento è stato organizzato da Magazzino sul Po in collaborazione con Fakedathura, una neonata casa di produzione di eventi sardo-torinese che ha festeggiato il suo esordio proprio in quest’occasione. In coda al concerto, abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola con la band.
I Musicoterapia Adulti sono tre amici di lunga data che hanno deciso di riproporre live quello che fanno in sala prove: musica strumentale improvvisata. Il punto di forza di questo progetto è proprio l’improvvisazione, che li porta a eseguire delle performance che, inevitabilmente, sono ogni volta uniche e sempre diverse tra loro. Attraverso il loro canale Youtube, poi, una diretta perpetua – chiamata, non a caso, Infinite Free Rock Music Vortex 24/7 Musicoterapia Adulti– riecheggia in loop sul Tubo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, riproducendo tutte le idee che emergono dalla band nelle varie jam sessions. Il contenuto viene infatti regolarmente aggiornato e rimane, così, sempre fresco di musica nuova.
La prima cosa che mi ha incuriosito quando ho scoperto il vostro progetto è stata proprio il nome: Musicoterapia Adulti. Appare centrale il riferimento alla salute mentale. Com’è venuto fuori?
P: Per quanto mi riguarda è così. Io l’affronto in questo modo: ho una vita stressante, quindi faccio questa cosa e dopo sto meglio. Seppure con delle differenze, penso che più o meno per tutti noi sia così.
M: Non perché sia rilassante fare questa cosa, anzi, è parecchio spaventoso farla live. Hai un pubblico davanti e il tempo a disposizione si limita a quello del live, per cui c’è sempre un po’ di paura al pensiero: «oddio, stasera come andrà?». Però, forse è terapeutico proprio per questo motivo: fare qualcosa che fa molta paura, mettersi a nudo, per poi sentirsi molto sollevati dopo averla fatta.
Nella mia testa ho pensato che tanto il nome del progetto e quanto il concetto di improvvisazione vi mettono nella condizione di rimanere nel qui ed ora, con quello che c’è e che si muove dentro di voi, che non è prevedibile.
N: Esatto. Alla fine accetti pure che ogni tanto capiterà di finire nei guai. Non sai bene quello che devi fare, ci sono momenti che funzionano e altri che funzionano meno ma fa tutto parte della musicoterapia: accettare che che ti trovi lì e dovrai dare il tuo meglio.
P: Però in fondo questa cosa non è nata per essere suonata nei live. Non che ci fosse una preclusione a riguardo, però è nata principalmente per noi stessi.
Ma allora com’è nato questo progetto?
M: È andata che io e Pietro volevamo vederci per suonare e basta. E Niccolò ha detto: «ah state a sonà senza di me…».
N: È stata pura gelosia, perché li conosco tutti e due da tanti anni. Così, quando ho saputo che si vedevano per suonare ho detto: «no, voglio venire anch’io!». E così è andata, mi sono infilato fin da subito.
M: Dalla prima volta, non siamo riusciti a fare neanche una prova senza di lui. Era destino che facesse parte del progetto.
Quindi è nato un po’ per gioco.
M: Sì. E secondo me continua anche un po’ per gioco. Non voglio parlare di analisi o di terapia perché so che sei psicologa (ride), però chi è che diceva che in analisi non esiste l’errore? Boh, vabbè: in analisi non esiste l’errore, punto primo. Lo dico io. Secondo punto: Winnicott dice che il gioco è l’espressione più autentica, quindi il fatto che noi siamo in tre e che ci sia la necessità di comunicare tra noi, già di per sé getta le basi per il gioco. E così, anche il pensiero «io faccio questa cosa, vediamo come reagiscono», oppure «ah! lui sta facendo questo, allora faccio qualcosa che gli risponda»: tutto questo assomiglia al modo in cui si gioca. Non è una cosa che puoi fare da solo. E per rimanere sul tema dell’analisi, un’altra cosa che mi piace è che ci diamo un timer, perché dal vivo non vogliamo andare troppo per le lunghe. Questa cosa, però, quando suoniamo la domenica non la usiamo: dura quello che dura.
N: (interviene) Però non l’avevamo ancora detto che ci vediamo la domenica per suonare.
M: Esatto, ci vediamo tutte le domeniche e andiamo in sala prove.
P: Anche se io preferisco il sabato alla domenica.
N: C’è chi ama i lavori più tradizionali come Pietro e preferisce il sabato.
M: A volte dura mezz’ora, quaranta minuti. L’ultima volta è stato tipo venti.
A proposito di tempi, mi è sembrato che la performance sia durata dieci minuti quando in realtà avrete suonato per una quarantina.
N: Trentacinque per la precisione. Stiamo lavorando sulla durata ideale, perché comunque è faticoso per noi. Dobbiamo trovare un equilibrio giusto, che idealmente sono più o meno trenta minuti. Può sembrare poco ma poi c’è il rischio che diventi pesante. Il nostro più grande timore è annoiare gli altri, o annoiarci noi.
Quindi, sul palco, è tutto improvvisato sul momento?
N: Assolutamente. Abbiamo un timer e basta.
M: Idealmente, però, non è una cosa che uno deve sapere per trovare il progetto interessante, è più una questione di processo. L’importante è che la musica sia divertente da ascoltare e che la gente abbia voglia di stare lì in modo intrattenuto.
Ci sono delle difficoltà specifiche nell’utilizzo del timer ai live? Vi trovate meglio con o senza?
M: Oggi abbiamo fatto trentacinque minuti al posto di mezz’ora. Secondo me è stato meglio.
N: Ogni volta proveremo ad aggiungere qualche minuto. Mo’ magari domani facciamo trentasei e mezzo.
Ritornando sulla salute mentale: da musicisti, che cosa ne pensate del sostegno agli artisti? Ci sono delle difficoltà specifiche che vanno affrontate a livello terapeutico?
N: Penso che tutti quanti, musicisti o no, vivono le loro pressioni. Se la musica può essere un momento per liberarsi e dare leggerezza più che creare pressione è una cosa bella. Da questo nasce un po’ tutto il discorso. Riguardo alla figura del musicista in generale però non saprei, non me la sento di parlare a nome di una categoria. Per me personalmente è stato bello, una cosa utile. Penso che farebbe bene a tutti i musicisti dire «vabbè, vediamoci, suoniamo e quello che succede succede». Per noi è nata così la cosa e penso che questo spirito venga percepito così anche dal pubblico: anche se non sa bene cosa sta guardando, a parte questo nome un po’ bizzarro, c’è sempre un clima positivo e questa cosa viene trasmessa. Penso sia una bella cosa.
Ma è vero che il musicista medio è sottoposto a uno stress gigantesco? È stressante stare dietro alle uscite, ai booking, ai live?
M: Io risponderei che il musicista medio non ha un booking, non ha un’etichetta e tendenzialmente non fa live. Se pensiamo al musicista come a qualcuno che fa musica, parliamo di persone che, nel complesso, in uno spettro tra amatorialità e professionismo propendono molto più verso la prima. Quindi, il musicista medio è più abituato, rispetto alla minuscola nicchia di musicisti professionisti, a stare in una dinamica simile alla nostra. Immagino che un musicista che sta nella nicchia di chi è sull’asse del professionismo faccia un lavoro molto stressante, essendo per pochissima gente, come lo è qualsiasi lavoro di quel tipo là.
N: Però, forse è anche vero che, da quando ci sono i social, il momento in cui iniziano a manifestarsi pressioni di questo tipo arriva molto presto. Uno inizia a suonare e subito si sente di dover competere, questo è uno degli aspetti meno simpatici del momento storico che viviamo. La nostra risposta è implicita in questo progetto: «vaffanculo, suoniamo e sticazzi! Quello che succede succede».
Questo aspetto è molto figo, si crea una situazione genuina, poco costruita e non si sa mai come andrà a finire. Lo trovo molto terapeutico.
M: Detto ciò, ovviamente esiste anche la musicoterapia vera come disciplina. Disclaimer: noi abbiamo scelto questo nome per gioco ma è una cosa seria, viene usata per persone che ne hanno veramente bisogno. Il nostro è un nome che usiamo perché ci sembrava simpatico, senza sminuire chi veramente fa musicoterapia.
Assolutamente, non credo passi questo messaggio. Ma la specifica “adulti” nel nome a cosa si riferisce?
P: Io ho una teoria. È tutto legato al fatto che abbiamo dei figli piccoli e che quindi vogliamo rivendicare la nostra dimensione adulta, perché dei bambini ne abbiamo le palle piene (ride). Forse però questo non vale per Marcello, infatti tu lo vorresti togliere.
M: Mi piacerebbe averne di figli, ma non ne ho. Come nome, io avevo proposto “Giovani Padri”.
N: L’unico che non è padre aveva proposto “Giovani Padri”.
M: Purtroppo, Musicoterapia Adulti è più catchy.
P: A malincuore, l’abbiamo scelto.
M: Era catchy per noi, è il nome del nostro gruppo Whatsapp.
P: È stata una decisione amara.
M: Il pubblico, però, è aperto dagli zero ai novantanove anni. Noi vogliamo anche i neonati ad ascoltarci.
N: Anche i bambini sono bene accetti.
I Musicoterapia Adulti portano sul palco un’esperienza immersiva, autentica e genuina. La performance che ne viene fuori ruota attorno al concetto di restare nel qui ed ora, riservando un’attenzione particolare a quel che c’è a livello emotivo in un determinato momento: un concetto, questo, che funge da bussola per chi guida il live. Un progetto autentico, partecipato e partecipativo, in grado di ricordarci che, anche da adulti, è importante sapersi divertire come dei bambini.