I modelli musicali anticonvenzionali del passato hanno ancora un certo appeal sulle nuove generazioni: Midas dei Wunderhorse rispolvera i Novanta più torbidi, ma col desiderio di un futuro luminoso
Non sono passati neanche due anni dalla loro inizio che i Wunderhorse sono già ricoperti di stima dai più disparati magazine di musica indipendente. E’ anche vero che Cub, il primo album in studio, è un gioiellino di musica garage/blues che attinge al filone indie di fine anni Novanta, senza però ricoprirlo di troppa nostalgia.
Eravamo tutti in lockdown quando Jacob Slater decise di mettere su l’allora progetto solista. Si fece aiutare dal suo amico d’infanzia Harry Fowler, un prodigio alla chitarra, con cui condivide una passione sfrenata per i Nirvana e i Pearl Jam. Non cito a caso queste due band, perché il secondo lavoro in studio, Midas, è certamente un omaggio ai loro idoli, ma anche un proseguimento più maturo e realistico dei primi lavori.
L’ascolto è positivamente e volutamente imperfetto. Un unplugged in cameretta, alienante e sofferente, valorizzato dal reparto di produzione: Craig Silvey ha una carriera da senior nel settore. Inizia nel 1994 lavorando al primo remix di Closer dei Nine Inch Nails, per poi proseguire come produttore e mixer per Portishead, Florence + And The Machine, Editors.
Il brano di apertura, la titletrack Midas, detta l’impostazione vocale di tutta la tracklist, che ricorda un incrocio tra Alex Turner (Silvey ha mixato e prodotto quasi tutta la prima discografia degli Arctic Monkeys) e una versione punk di Mark Knopfler, accompagnata dal ponte-assolo che rievoca i tempi d’oro di Mike McCready. Rain e Silver non possono che seguire questa linea editoriale, sporcando ancora di più la chitarra elettrica di note stonate e arrangiate sul momento. Emily è una ballad malinconica ma energica, potenziata da una batteria chiara e dura. Arizona trasuda Nirvana da ogni parola, rendendo la somiglianza vocale di Slater a Kurt Cobain quasi imbarazzante e un po’ nostalgica. July e Cathedrals rompono lo schema soft rock differenziandosi dal resto delle tracce per l’iper-elettricità e per il ritornello sludge grunge esplosivo. Questo improvviso slancio, apocalittico e catartico allo stesso tempo, custodisce la ragione d’essere di Midas, e a dircelo sono i testi.
La band non ha nascosto alcune recenti problematiche personali durante lo scorso anno, collimate con la discesa alla notorietà e l’impegno asfissiante della tournée. Non sono state le improvvise cascate di denaro ad aver accecato i quattro, che tutt’ora si mantengono con lavori part-time, bensì il travolgente mercato della musica che ti spreme sul nascere. Ne sono un esempio Silver, una ninna nanna che spera di addormentare il dolore di una spensieratezza perduta troppo presto; Superman, una soggettiva del supereroe, forse dello stesso Slater in lotta per sfuggire da una realtà che non riesce a spiegarsi; ed Emily, il cui testo apre con la frase «this job is killing me slowly». Oltre al tono cobainiano criticato poco fa dalla sottoscritta, anche nel modus la band appare del tutto simile al frontman dei Nirvana, utilizzandolo per esprimerne significati e dolori simili che che di fatto non possono essere riconducibili alla funzione di semplice omaggio.
Midas esce fuori spontaneamente, canzone dopo canzone, senza mai perdere il filo del discorso. Un confessionale puro, ricalcato dalla sensibilità e dalla cura dei testi, molto improntata sullo storytelling preciso e impeccabile. Consideriamolo un vero debutto, come dichiara la band inglese, che ha raggiunto unicità e stile in pochissimo tempo, rendendo l’album una gemma rara di musica attuale.