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Make It Up: i FEET non hanno nulla da farsi perdonare

Make It Up, secondo album dei FEET, segna non solo il loro ritorno sulla scena, ma una vera e propria “new era”. A distanza di cinque anni dall’esordio con What’s Inside Is More Than Just Ham, la band rilascia un album nel quale, per usare le parole del frontman George Haverson, «everything has to have its place»


Immaginate di essere all’inizio di una qualsiasi estate degli anni Duemila, in auto con amici, finestrini abbassati e direzione mare. Indossate una qualche improbabile t-shirt che oggi detestate ma che allora vi faceva sentire bene e in macchina si parla di quanto sia emozionante la storia d’amore tra Ryan e Marissa in The O.C., o – più accesamente – di quanto a lungo Walter White e Jesse Pinkman continueranno a cucinare nei prossimi episodi di Breaking Bad.

Fa caldo, non vedete l’ora di buttarvi in acqua per poi farvi una bella birra ghiacciata, ma c’è ancora un po’ di strada da percorrere. Iniziate a pigiare compulsivamente i tasti della radio alla ricerca di un brano che vi faccia compagnia, o anche solo per ammazzare la noia. L’unica stazione che prende – oltre ovviamente a Radio Mariasta passando No Vision dei FEET: il riff di  chitarra vi incuriosisce, ma quando entrano batteria e voce non potete fare a meno di alzare il volume, mettere la testa fuori dal finestrino e lasciarvi andare al soft sound di questo brano.

Qualcosa non vi torna? Notate qualche errore cronologico? Certamente! No Vision è l’ottava traccia di Make It Up, ultimo album dei FEET, uscito venerdì 14 giugno 2024 per l’etichetta discografica londinese Submarine Cat Records. Insomma No Vision, in filodiffusione alla radio dell’auto che vi portava al mare vent’anni fa, non è mai – ovviamente – passata. La verità è che questo disco è attuale oggi proprio come lo sarebbe stato decine di anni fa. La band ha catturato dentro a 12 tracce l’essenza stessa della british rock music, più precisamente dell’indie rock britannico.

A questo punto sorge spontanea – e pure molto calzante – una domanda che Simon Reynolds, noto critico musicale britannico, pone ai sui lettori nel suo libro Retromania: «continueremo a vivere oppressi dalla nostalgia oppure la retromania si rivelerà una fase storica isolata?». 

Se con Make It Up i FEET cavalcano – dichiaratamente – l’onda buona già surfata in precedenza da altre band, come The Strokes, The Hives, The Vines e non solo, è forse un peccato? Per alcuni esperti del settore – si veda la fulminea recensione di Ben Forrest, uscita in anteprima su Far Out Magazine due giorni prima dell’uscita del disco – evidentemente sì. 

Forrest dà alla sua review di Make It Up il seguente titolo: «Generic indie rock trapped in the past». Non contento, attribuisce solo 1 stella e mezzo su 5 a tutto l’album. Continua, per nulla leggero, sostenendo che «un album dovrebbe essere una serie di emozioni, temi e suoni diversi, ma Make It Up disegna una linea piatta e monotona. Non c’è nulla da guadagnare qui, men che meno per gli stessi Feet. Creare un album che suoni praticamente uguale al loro lavoro precedente solleva la domanda: per quanto tempo la band potrà sostenersi?». Insomma, uno sfacelo per i poveri FEET.

Eppure, se si ascolta il loro primo album, What’s Inside Is More Than Just Ham del 2019, è evidente che tra i due lavori ci siano notevoli differenze. Quello d’esordio è l’album di una band che ha ascoltato molta musica anni ’70/’80 e che desidera raccogliere le influenze dei suoi ascolti, per poi divertirsi a sperimentare, stravolgere il suono puramente rock dei suoi pezzi e dare sfogo ad una variopinta effettistica tra synth, distorsioni e riverberi. Nulla di tutto questo è presente in Make It Up. 

Better Than Last, la prima traccia del disco, comincia con un riff di chitarra che non ci dà nemmeno il tempo di respirare, pare di essere al centro della canzone e invece siamo solo all’inizio. Sembra che il primo secondo di audio sia stato troncato, ma non è così, il disco non è rovinato e non salta, i FEET ci lanciano immediatamente in medias res. Non solo, dal primo singolo fino all’ultimo, Goodbye (So Long, Farewell) – dal ritmo dolce e lievemente nostalgico –, veniamo trasportati in quell’auto che ci portava al mare nei primi anni Duemila, con la testa fuori dal finestrino, per tutta la durata del disco, 39 minuti e 54 secondi.

La sperimentazione presente nel primo album non viene – intenzionalmente – approfondita nel secondo. George Haverson, frontman della band, in un comunicato stampa spiega: «We spent a great deal of time trying to define what we are as a band on this album. […] I feel like we’ve got 12 complete songs on this album and not 12 ideas», poi aggiunge: «Before, it felt a bit more like we were throwing shit at the wall. This time round, everything feels a bit more refined».

I suoni sono più asciutti e sinceri, i testi pure. L’ironia del primo lavoro ha lasciato spazio all’intimità. Si ascolti per esempio Truly Awful: due minuti iniziali lasciati a un arpeggio di chitarra e alla voce vellutata del cantante, doppie voci armonizzate con cura, pure il tocco del batterista è soffice e sembra cullare l’ascoltatore. Suoni più energici e ritmati, invece, sono quelli di Sit Down, forse il brano che fa maggiormente da ponte con il primo album. La voce stessa del frontman qui è più ruvida e il fraseggio si avvicina al parlato. Gran cassa e basso incalzano e la sezione ritmica la fa da padrone per tutta la traccia.

È tutto, fuorché un disco asettico. Probabilmente i critici più severi non hanno notato che in questo album sono presenti numerosi stimoli e suggestioni. C’è la ricerca di un suono pulito, ci sono influenze e riferimenti ad altre band – difficile non pensare ai Talking Heads mentre si ascolta la seconda traccia, The Real Thing –, c’è un’indiscutibile cura del dettaglio e non importa se quest’ultimo non è stravagante o pomposo: nessun canone musicale impone che il secondo disco di una band debba per forza essere più bizzarro rispetto al primo.

La decostruzione stilistica operata dai FEET su loro stessi è il filo rosso, senza dubbio sottile, che tiene unite tutte le tracce. Ne è uscito un disco indie rock in purezza, a dimostrazione che questa band sa chi li ha preceduti e ora sa cosa vuole essere e probabilmente dove vuole andare. Non esiste nulla di più auspicabile per chi fa musica.

Domani, se potete, mettete su Make It Up in auto, tirate giù i finestrini e andate al mare.

 

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