Nella grande famiglia del punk hardcore, c’è uno stretto legame tra la musica, l’inchiostro e la pelle dei “Kids”. A Bologna, Gianluca ha incontrato Martino dello studio “Black Panda”, per raccontare la sua esperienza leggendaria in quello che è, a tutti gli effetti, un vero e proprio linguaggio “da tribù urbana”
«Oh Vez, fai piano che sono stato da Martino stamattina»: se mi avessero dato un centesimo per ogni volta che ho sentito questa frase durante una serata a Bologna, probabilmente ad oggi avrei completato l’intera discografica degli Abigail senza troppa fatica. Perché, in fin dei conti, fare punkhardcore a Bolo significa anche farsi tatuare dall’amabile straight edge di quartiere.
Questo è il motivo per cui siamo qui, oggi, a chiacchierare con Martino: classe 86, amico e compagno da una vita. Ma, soprattutto, esperto artigiano dell’inchiostro sottopelle. Insieme affronteremo i “perché” e i “per come” del suo percorso, per scoprire il doppio filo che lega saldamente tra loro le tematiche dei tattoo, delle sottoculture e del punk hardcore, nel suo più ampio significato. Parleremo anche di come ― oggi come ieri ― tutto questo sia spesso vittima di pregiudizi: perché sì, forse a volte tutto inizia proprio da un black flag tatuato sul polpaccio, però c’è anche un dopo. E a noi interessa quello.