Nell’ambito della rassegna OGR Sonic City – una collaborazione OGR Torino e Fondazione Reverse per Stupinigi Sonic Park –, James Blake incanta Torino nell’unica data italiana del suo tour Piano Solo. Ironia sommessa, brani intensi e nessun orpello per un live che è emozione pura. In apertura, il giovane progetto milanese prima stanza a destra
Ore 21.30, OGR Torino. L’atmosfera prima dell’inizio è sorprendentemente tranquilla. Non calma tipo silenzio religioso, ma una calma densa, da gente che sa aspettare qualcosa che conta, ma senza eccessiva serietà. Le persone parlano piano, ma ridono forte. Ci sono corpi vicini che si scambiano carezze come piccoli riti di presenza, altri persi nei telefoni, altri ancora soli ma sereni. Qualcuno lancia meme a caso nell’aria, un’amica li richiama simpaticamente: «Bisogna fare silenzio», «Vabbè ancora non c’è lui». Effettivamente, non è ancora il momento.
Ad aprire la serata è prima stanza a destra, progetto milanese guidato da un artista ventunenne – autore e produttore – dall’identità misteriosa. Il falsetto su produzione sperimentale che ha utilizzato ha suscitato in me sensazioni ambivalenti. L’artista sta al centro del palco, di profilo, seduto e incappucciato – come di consueto – mentre suona e canta, tastiera e voce. È accompagnato da due musicisti: a destra la batteria, a sinistra synth e chitarra. Nessuna parola, solo una canzone dietro l’altra, sequenze asciutte e scarne. Ritmo dritto, basso pronunciato, voce fredda e artefatta, eterea ma distante. I testi sono personali, giovani, anche un po’ naïf; eppure, non ho percepito quel calore emotivo che mi aspetterei da un artista della sua età che pronuncia parole d’amore. Il pubblico, seppur più maturo rispetto al probabile target giovane del cantautore, risponde bene al live. La performance tuttavia risulta complessivamente poco accogliente, nonostante l’intenzione fosse probabilmente quella di creare un luogo etereo in cui viaggiare con la mente. A stonare è, forse, la volontà di andare dritto al punto: la musica senza fronzoli ci piace, ma quando l’intimità si fa artefatta, perde il suo focus. Forse necessitiamo tutti di un punto di contatto in più con l’artista, che però è restio a farsi raggiungere dal pubblico.
Dopo di lui, l’attesa. Si può percepire tensione nell’aria, traducibile in una curiosità collettiva, un fremere giovane di un pubblico adulto.
James Blake si fa aspettare qualche minuto. Davanti a me noto una coppia anziana farsi teneri dispetti, sfiorandosi con le dita, punzecchiandosi affettuosamente. Io stessa, ammetto, comincio a spazientirmi, ma fremiamo un po’ tutti dalla curiosità. Blake è un artista che – partito dalla scena post-dubstep londinese e dalla sperimentazione elettronica più cerebrale – ha saputo trasformare i silenzi in emozione pura e l’introspezione in dichiarazione politica. Dalla frantumazione sonora degli esordi alla scrittura minimale ma carica di senso degli ultimi anni, Blake ha costruito un linguaggio tutto suo – fatto di vocoder, pause, pianoforte e strappi emotivi. Quando le luci si spengono, Blake sale sul palco della Sala Fucine: stavolta con un unico pianoforte, qualche loop, basi elettroniche, nessun orpello.
Nessuno urla come ai concerti da stadio, nessuno agita le mani. Da subito, il cantautore inglese impone quell’atmosfera liquida che avvolge la sala, fragile come un respiro sospeso. Il contesto delle OGR, poi, fa la sua parte: ha quel dono raro di essere un posto ampio ma intimo, solenne senza risultare freddo. Le luci sono leggere, mai invadenti. Il pubblico si raccoglie verso il centro, lasciando i lati un po’ più vuoti, come attratto da un campo magnetico. La sala non è pienissima, ma comunque ben popolata: per essere un concerto in piano solo, è un bel colpo.
Il primo pezzo, con un impatto micidiale, è Like the End. Si apre con un incedere delicato, quasi ricordando una ninna nanna, sospesa nell’aria: la voce di Blake a questo punto è un filo sottile, declama versi che scheggiano la realtà quotidiana: «As I separate my cardboard, set my taxes aside to fund another war…». Le parole del cantautore denunciano un’ipocrisia politica che pesa come un macigno, scavano dentro una realtà feroce che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno: guerre lontane ma vicine, conflitti che dilaniano il Medio Oriente e che ci appartengono – o dovrebbero appartenerci – sempre di più, l’impotenza globale. Il ritornello, «But doesn’t it feel like the end? Something’s coming for us and maybe we’re not prepared that this might only be day one», è un grido di allarme che risuona nel silenzio della sala, una sensazione di fatalismo ma anche di consapevolezza necessaria. La musica diventa una lente che ingrandisce le crepe della nostra realtà, rivelandone la vulnerabilità, senza bisogno di ornamenti, con una forza che arriva dritta al cuore. E bastava solo un piano e una voce.
Su questa strada già spianata, si inserisce la scelta di eseguire un brano inedito: Trying Times. Come una carezza collettiva Blake canta «As we go through trying times», con una dolcezza che sfiora la resa. Un pezzo nuovo che sembra parlare d’amore, ma che forse – come spesso accade con lui – dice molto di più.
Alcune cose nella sua vita sono cambiate, ci racconta Blake, questa nuova modalità non è che la conseguenza naturale. Durante l’intero concerto, l’artista ha interagito moltissimo con il pubblico, dicendo di più sulla sua scelta di andare in giro in piano solo. Tra l’intensità di un brano e l’altro ci ha fatto sorridere e – con un’ironia a tratti un po’ impacciata – scherza sulla solitudine sul palco, ridendo si chiede se forse non sia il caso di riportare la band on stage.
Dopo, con Say What You Will e Mulholland, il ritmo si è fatto più vario, alternando momenti di calma e tensione culminati in Life Round Here, che ha portato una vena più ritmica e vibrante. Uno dei momenti più immersivi è stato quello in cui Blake ha lasciato il pianoforte per perdersi tra i suoi loop. Questi momenti riassumono però solo parzialmente l’essenza di Blake, ad oggi una delle figure più riconoscibili e trasversali della musica contemporanea. Solo nel 2023 con Playing Robots into Heaven, dopo anni di sperimentazione, l’artista ritorna a una matrice elettronica più pura, quasi a chiudere un cerchio, che è stato poi il centro della serata.
Giunti verso la fine, qualcuno dal pubblico richiede un altro brano a gran voce. «This isn’t a wedding!», risponde Blake, e poi, con la sua tipica ironia, un po’ timida: «I’ll play it – but not because you said so, I had already decided». Qui risiede per me il momento di maggiore rilascio, forse il più toccante, con una cover di A Case of You di Joni Mitchell. È una scelta sorprendente, eseguita solo al piano, dopo una parte centrale del concerto intensa, piena di stratificazioni elettroniche. Blake introduce questa cover come una parentesi meditativa, capace di rallentare tutto il flusso emotivo. La sua voce, senza effetti, si fonde con il pianoforte: è una cover magistrale e il silenzio in sala ne riflette la profondità.
Il punto di forza dell’intera serata è stata la sua sobrietà: niente merchandising, nessun eccesso, solo lui, il piano e pochi loop elettronici. Questa semplicità ha abbattuto muri, ha alternato momenti di riflessione, a attimi di ironia, costruendo un flusso musicale sul momento, insieme, senza seguire uno schema studiato.