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In fuga dal presente: Pass the Distance e la ricerca di salvezza di Simon Finn

svg3 November 2025MagazineMatilde Milano

In un intreccio tra folk, progressive rock e world music, con Pass the Distance – uscito nel 1970 per Mushroom Records – l’inglese Simon Finn ci fa immergere nella sua riflessione sul mondo capitalistico occidentale pregna di disillusione e sconforto. A 55 anni dall’uscita dell’album, ne ripercorriamo le suggestioni: un viaggio che esplora il sacro e il dissacrato richiamando a sé il dominio della natura sull’uomo, con fine ultimo trovando una via di scampo da una modernità opprimente e profondamente corrotta


Quando si pensa a un disco autunnale, solitamente affiorano alla mente sentimenti di nostalgia. Un certo desiderio di cambiamento pungola la pelle, soprattutto durante il passaggio dal caldo ai primi freddi. Perfettamente in linea con questa atmosfera, esiste un album che suona così atipico da collimare il clima uggioso e di transizione che segna la stagione: Pass the Distance (1970) dell’inglese Simon Finn è un disco che unisce folk radicale, sonorità dei primi anni Settanta, flauti bucolici e tocchi progressive rock , creando un clima di aspra collera estasiata che ben descrive i sentimenti di incertezza e cambiamento di cui l’autunno si copre.

L’intento del disco sembrerebbe essere un ritorno alle origini in opposizione alla modernità: Simon Finn si schiera contro la civiltà industriale e capitalistica, risollevando la forza e la passione della natura, vista come liberatrice e rifugio per tutti coloro che si sentono incastrati in una società perbenista insopportabile. Persino l’amore si radica nella potenza del creato. In maniera quasi estenuante, Pass the Distance materializza, smaterializza e reinventa di continuo le emozioni che suscita, riuscendo a rappresentare la sacralità di una metamorfosi che guarda ai primordi. Il canto è beffardo ma intriso di cupezza e afflizione: a tratti, si ha l’impressione di ascoltare il vaneggiare di un folle che ha perso il lume della ragione. La disillusione nei confronti del sociale è massima, al punto da invocare un ritorno a una dimensione quasi atavica che abbraccia sacro e religiosità.
È proprio la sacralità, infatti, la materia essenziale in Pass the Distance. Il disco ruota attorno a figure profetiche, avanzando critiche nei confronti degli attaccanti del mondo capitalista che credeva solo nel Dio Denaro e nella Santa Ipocrisia . Come un uomo smarrito nel mezzo di una contemporaneità per lui invivibile, Simon Finn si rifugia nell’estenuante ricerca di una guida spirituale che possa offrirgli uno spiraglio di speranza.

Il clima di Pass the Distance è disorientante, intessuto da percussioni, chitarre folk e incursioni nella world music . Sin dall’inizio emerge la critica sociale che permea l’album: Simon Finn impreca contro i capitalisti e sembra voler maledire l’uomo occidentale. Il clima pungente si acuisce nel requiem Fades (Pass the Distance) , dove gli strumenti del prog rock suonano profetici creando un’atmosfera di annichilimento. Finn canta sermoneggiante contro la società bianca e il potere che ha di annientare, suoni distorti preannunciano un grido in lontananza ( «W on’t you pass the distance to come go?» ), accompagnato da arpeggi di chitarra. I palazzi di Londra sono giungle di dolore e il dissenso diventa isteria in Big White Car , dove una voce strilla «I don’t wish ride» in riferimento alla grande macchina bianca che dà il titolo al brano, simbolo della proprietà e della società industriale occidentale.

Procedendo con l’ascolto, questa voce si fa via via più forte e prepotente, alzando e abbassando la tensione fino ad arrivare all’esplosione di Jerusalem . Qui, il folk diventa molto più aspro e incontriamo il primo elemento sacrale del disco: la cristianità viene osannata e lamentata dalla prospettiva di un accanito fedele che accusa coloro che hanno tradito il vero spirito di Gesù. Simon Finn attacca con voce graffiata e sempre più rabbiosa chi pratica la fede ipocritamente, in un crescendo di tensione dove il ritmo diventa tachicardico. La venerazione diviene quasi un pianto nel ritornello. Finn canta ormai senza controllo, i suoi deliri sono talmente strazianti da diventare incomprensibili, facendo contorcere lo stomaco e corrucciare la fronte a chi li ascolta. La società moderna porta le sue vittime a perdere la ragione e la prima guida che Simon Finn richiama a sé è la cristianità.
Un’incursione di stampo filosofico – anche strettamente legata al brano successivo – potrebbe rintracciare un nesso tra le prime pagine della Bibbia Satanica di Anton LaVey e le parole pronunciate dal cantante:

«Aveva forse immaginato che in quel momento duecento milioni di ipocriti avrebbero lodato il suo nome?
Oh, e se ora fosse sceso, quegli ipocriti lo avrebbero crocifisso di nuovo»

Nell’introduzione alla filosofia satanica, LaVey spiega l’emergere dell’esigenza di fondare una religione – una filosofia – opposta a quella Cristiana, intrisa di falsità e perbenismo. LaVey parla delle domeniche in cui vede fuori dalle chiese famiglie i cui padri la sera prima, chiusi nei locali, tradivano le loro mogli. Nasce così la voglia di screditare il sistema del cristianesimo di facciata attraverso una dottrina filosofica e religiosa che esalti le pulsioni, come una sorta di Grande Altro lacaniano, di modo che gli esseri umani possono smettere di vergognarsi dei loro istinti, fingendo di essere chi non sono. LaVey non venera il male” ma l’esaltazione dell’individuo. Che Simon Finn possa in qualche modo essere legato a questo discorso? La linea che ipoteticamente lo ricongiunge con la filosofia satanica è più di pensiero che ideologica. Entrambi vogliono allontanarsi dall’ipocrisia della società ma praticano scelte diverse: Simon Finn promuove un ritorno alla natura di stampo romantico, un atteggiamento che batte più in ritirata rispetto a quello del combattente LaVey, che promuove invece una nuova religione ex novo .
I suoni di organo chiudono il brano in maniera sbrigativa.

Il secondo elemento sacrale – o dissacrato – si trova in Where’s Your Master , che vede il diavolo come protagonista. Simon Finn racconta strisciante i riverberi nella sua mente dopo l’incontro con Satana in persona, riportando anche dei dialoghi in presa diretta. Vivere in una società che non si rispetta induce a riflettere sul bene e sul male e per lui l’umanità è spregevole quanto Lucifero . La disillusione diventa disinteresse alienato e l’anomia si tinge del classico folk allegretto in Hiawatha , brano dalle sonorità world music tribali, nonché terzo e ultimo elemento sacro del disco. Finn omaggia il mitico oratore della stirpe irochese – Hiawatha – come fosse un profeta o un’entità superiore da rispettare: l’ennesima guida che il suo animo tormentato ricerca. Il suono è corposo e tetro, marcato da fitte pennate di chitarra che si rilassano in un arpeggio sul finire del pezzo.

Lo squilibrio provocato da Pass the Distance appare assoluto e per questo risulta tremendamente affascinante. Ammirare le foglie cadere dagli alberi muta di significato se nel frattempo si ascolta questo disco: il benefico si radicalizza, affiorano riflessioni prima sulla pelle che nella mente, mentre quel desiderio di trasformazione alcune volte si fortifica e altre volte mortifica. Non si parla di melliflue armonie folk che evocano mesti scenari, ma di un ruvido tocco che indurisce i contorni degli oggetti, delle nuvole.

Simon Finn cerca disperatamente un appiglio e ce lo comunica attraverso un disco che a primo ascolto può anche non piacere, ma che alla fine attrae inevitabilmente come una calamita, portandoci a riascoltarlo più e più volte, riuscendo infine a farci respirare e comprendere il suo sconforto. Le giornate che si accorciano invitano alla meditazione e con questo album la riflessione diventa quasi catartica: la visione di Simon Finn rimodella il nostro modo di esperire i sensi, riuscendo a trattare la sacralità in modo tutt’altro che banale, suscitando un’inaspettata commozione. L’invito è al cambiamento: guardiamoci attorno, ponderiamo ciò che vediamo attraverso un pensiero critico, troviamo la nostra personale salvezza.

Matilde Milano

Collezionista seriale di dischi e di qualsiasi opera occupi dello spazio. Parlo smodatamente di musica, concerti e questioni che possono trasformarsi in una digressione inesauribile. Industrial al mattino, folk la sera.

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