Alla penultima tappa di un tour iniziato a maggio, Dada’ appare nella sua doppia natura: l’artista che attinge a un immaginario fiabesco abitato da archetipi e simboli, e la cantautrice che usa voce e corpo come strumenti di narrazione. Il suo percorso creativo emerge come un intreccio tra musica, teatro e psicologia, dove ogni immagine genera un suono e ogni canzone apre una storia. Le fiabe, gli alter ego, i personaggi fantastici e i riti personali che popolano il suo mondo sono la lente attraverso cui Dada’ racconta sé stessa e il modo in cui abita il palco
Sono le sette di sera del 5 dicembre quando arrivo al Magazzino sul Po per incontrare Dada’. La trovo sul palco insieme al batterista, impegnata nelle ultime prove di soundcheck. Alle loro spalle, un’illustrazione la ritrae con corona, gorgiera e petto nudo: l’alter ego magnificato della persona in tuta rosa e scarpe bianche da ginnastica che ho davanti.
Anche fuori dal tempo sospeso del concerto, l’incantesimo dell’arte performativa continua ad aleggiare: in Dada’ convivono la cantautrice campana e la figura che testimonia un regno immaginifico. Ne parliamo sedute al bancone del locale.
Il tuo nome d’arte Dada’ richiama l’avanguardia dadaista. Se oggi dovessi scrivere un tuo personale Manifesto Dada, quali sarebbero i tre principi fondamentali?
Da-da è un suono che tutti gli esseri umani riescono a pronunciare: è la lallazione, un ricordo che custodisco e a cui voglio restare fedele, perché rappresenta la mia parte bambina. Da lì è nato il nome, che poi si intreccia con il dadaismo, corrente che mi affascina molto per la sua non-accademicità. I miei tre punti? Primo: niente geometria, niente rigidità. Le regole accademiche mi piacciono poco, perché limitano identità e libertà. Secondo: rompere gli schemi è il modo più autentico per far emergere chi siamo, come insegnava Picasso: si studiano le regole per poterle distruggere. Terzo: l’autenticità. Indosso una maschera, sì, ma è una maschera da palcoscenico, non uno scudo.
Il tuo ultimo disco, Core in Fabula, è un concept album di fiabe sonore con una forte base onirica, dove convivono madonne nere e angeli con seni prosperosi. Quando e come è nato il tuo legame con il mondo fiabesco?
Le fiabe mi hanno sempre affascinata perché permettono di raccontare ciò che ci appartiene, l’umano, da un punto di vista diverso. Le emozioni – belle o brutte – diventano più sopportabili se hanno un contorno fiabesco. Da adulta, studiando psicologia, le ho ritrovate come strumento terapeutico. Avevo già scritto brani in adolescenza, li ho ripresi, ne ho creati di nuovi e li ho raccolti sotto un unico cappello: Core in Fabula.
Recentemente hai pubblicato sui social un video dove metti in scena con altre tre attrici e un attore la storia delle quattro sorelle diavolesse. Ci racconti come è andata?
Le fiabe di Core in Fabula non finiscono nel disco: ne ho scritte molte altre, non musicate. Una di queste era proprio Le quattro sorelle diavolesse, e sentivo che aveva un potenziale visivo enorme. Ho voluto adattarla e farla diventare una scena teatrale.
Ho coinvolto attori e attrici straordinari, tra cui Nunzia Schiano, che rappresenta un pezzo importante della tradizione campana e italiana. Si sono affidati totalmente alla mia idea e mi hanno lasciato carta bianca sulla regia. È stato un regalo. Faccio un lavoro che molti sognano: cerco di godermelo fino in fondo.
Nel tuo processo creativo, senti che è il teatro a modellare la musica o che è la musica a rendere inevitabile una dimensione teatrale?
Penso alle mie canzoni e alle immagini in modo istintivo. Per me il mondo artistico è come un fiore: l’immagine è il polline, mentre la musica, la pittura e la moda sono la corolla. Tutto nasce insieme.
Qual è la parola magica o la chiave d’accesso al tuo mondo fiabesco?
La porta d’accesso è la voce: cantata, usata in modo autentico, trasformata in base a ciò che si vuole raccontare. E poi il corpo: è lui che ci permette di attraversare ogni emozione, dalle più luminose alle più difficili. Nel vinile ho inserito anche un piccolo incantesimo…
Credi nel lieto fine?
A volte sì, a volte no. Credo nelle fiabe che insegnano che il lieto fine non è obbligatorio. A volte le storie restano sospese, e va bene così. Le narrazioni troppo perfette non raccontano davvero la complessità dell’essere umano.

