Il 2024 sta finendo e, tirando le somme, possiamo dire che è stato l’anno dei grandi ritorni: la reunion degli Oasis, il nuovo album dei The Cure, il rilancio dei Linkin Park con una nuova cantante. Quelli appena citati sono solo alcuni dei grandi progetti del passato che sono tornati alla ribalta, ma perché tutto questo ci esalta così tanto? Il fenomeno di quest’anno potrebbe avere a che fare col fattore nostalgia, ma perché siamo così legati al passato?
Il primo grande colpo al cuore che ho avuto quest’anno è stato il 27 agosto, quando Noel e Liam Gallagher hanno annunciato, dal nulla, la reunion degli Oasis. La notizia di un nuovo tour estivo – che partirà nel 2025 – a quindici anni dal loro scioglimento è stata una doccia gelida che mi ha risvegliata da un sonno profondo. Sono cresciuta con le canzoni degli Oasis, le cantavo a squarciagola in macchina con mio padre o le ascoltavo nell’intimità della mia cameretta tra una lacrima e l’altra; i fratelli Gallagher rappresentano la mia infanzia e la mia adolescenza. Non ho mai avuto l’onore di vederli dal vivo, ma sono stati sempre con me fin da quando ero molto piccola: erano al mio fianco quando a sette anni provavo a cantare le prime canzoni in inglese, così come nei miei primi drammi amorosi, quando di anni ne avevo quindici. L’annuncio del loro ritorno è stato per me qualcosa da masticare e digerire, un avvenimento troppo bello per essere vero.
Il secondo colpo al cuore è arrivato con i Linkin Park. Ricordo un misterioso countdown lanciato sulla loro pagina Instagram e poi, una sera, il mio telefono illuminato da una notifica annunciava: «i Linkin Park sono in diretta ora». Mi trovavo al pub con gli amici la sera di quella notifica, ci esaltammo subito essendo tutti fan di vecchia data della band e, con il cuore in gola, aprimmo Instagram per scoprire che cosa stesse succedendo. Non potevamo credere ai nostri occhi, i Linkin Park stavano suonando a Los Angeles in un concerto segreto messo su per presentare Emily Armstrong, la new entry del progetto. Sentire Mike Shinoda che cantava di nuovo i vecchi classici della band accompagnato dalla voce potentissima di Emily Armstrong ci ha fatto commuovere ed esaltare; ovviamente, un pensiero pieno di dolore è andato a Chester Bennington. Il bilancio di questo nuovo ritorno è stato positivo e l’abbiamo vissuto come un nuovo inizio, pieno di opportunità e nostalgia.
Al netto della mia esperienza, mi sono resa conto che, anche attorno a me, si stava alzando un’ondata di euforia per questi ritorni dal passato, un’energia che solo la musica con cui sei cresciuto riesce a darti. Quindi ho iniziato a chiedermi come mai questa magia emerge sempre quando il presente viene contaminato da qualcosa che si pensava fosse concluso per sempre. Così, mi sono resa conto della potenza del fattore nostalgia, di quanta energia esso riesca a smuovere. Ma perché ciò accade? Perché siamo persone così nostalgiche?
Il termine nostalgia deriva dal greco nostos, che significa ritorno, e indica un desiderio molto intenso di tornare a vivere in un luogo amato che ora è lontano. Se applichiamo tale definizione alla musica, possiamo dire che questo luogo – o questi luoghi – è rappresentato da un progetto, una band, un musicista che è stato per noi una sorta di casa in cui ci siamo sentiti accolti e capiti. Si dice che si torna sempre dove si è stati bene e proprio per questo il ritorno della musica che abbiamo amato in passato rappresenta per noi una comfort zone, un posto dove già sappiamo che staremo bene, una sorta di garanzia.
Ma a cosa ci serve rimanere nella comfort zone? Innanzitutto, ci aiuta ad abbassare i livelli di ansia. L’ignoto è un qualcosa che ci permettere di crescere ed evolverci a un costo piuttosto elevato, ovvero quello di affrontare l’incertezza e di alzare i livelli di ansia e frustrazione. La comfort zone è invece un luogo dove non c’è progresso, tutto è conosciuto e immobile, ma è anche il posto dove possiamo rifugiarci e sentirci sempre al sicuro. Nella vita abbiamo bisogno sia di stare nella comfort zone, per sentire una base sicura a cui appoggiarci, sia di uscire da essa per fare esperienze nuove e progredire.
Un altro fattore legato alla nostalgia dei tempi che furono è la convinzione che il passato sia migliore del presente. Ci troviamo spesso a dire frasi come «non c’è più la musica di una volta» o «si stava meglio prima», ma è davvero così? Sicuramente la musica del passato a cui siamo legati è accompagnata da ricordi positivi che, per influsso del fattore nostalgia, ci spingono a desiderare di riviverli.
Un altro elemento importante riguarda il progresso tecnologico e l’inevitabile cambiamento nell’industria musicale. Una volta, negli anni ’60, ’70 o ’80, la musica non era dominata da algoritmi o strategie di marketing e noi non avevamo la possibilità di accedere a una quantità di musica infinita come oggi. Il sovraccarico di scelta nelle piattaforme digitali e l’avvento di un’industria legata principalmente ai soldi a discapito dell’arte può portarci a vedere il passato come più romantico e genuino.
Quando le piattaforme digitali non esistevano, le nostre scoperte musicali passavano – molto di più rispetto a oggi – per altri canali, come il passaparola, i concerti e la radio. L’ascolto era più attento, profondo e legato a delle esperienze che, spesso, presupponevano un notevole carico emotivo. Questi fattori possono influire su un attaccamento molto forte ai nostri vecchi eroi musicali, poiché sono legati a delle esperienze emotive che riguardano non solo l’ascolto, ma anche la situazione sociale e relazionale a cui quell’ascolto è associato. Per tirare le somme, possiamo dire che il ritorno di tutti questi progetti è un qualcosa che ci esalta perché, forse, ne abbiamo ancora bisogno. Eppure, non perdiamo la curiosità per ciò che è nuovo e ignoto.