Con The Human Fear, i Franz Ferdinand affrontano il tema della paura: di essere sé stessi, del giudizio altrui e della maturità, in un meta-gioco che trascende il contenuto dei testi
Nelle lunghe interviste concesse alla stampa dal suo appartamento parigino, il frontman Alex Kapranos ha messo in chiaro alcuni concetti riassumibili con «facciamo ciò di cui siamo capaci». E bisogna ammetterlo: è un piacere rivederlo nella presentazione live del singolo Audacious su CBS ancora con la maglietta a righe come nei concerti e nei video di inizio millennio. Con una formazione rinnovata – dalle origini sono rimasti solo Kapranos e il bassista Bob Hardy – e l’ingresso della batterista Audrey Tait, è gustoso riconoscerne immediatamente gli stilemi anche dall’iconico timbro vocale, nelle cadenze palpitanti e nel suono della Telecaster Deluxe della chitarra ritmica accompagnata dai proverbiali lick ossessivi.
In The Human Fear, il tema ricorrente è quello della paura, ma l’autore ammette di essersene accorto solo a posteriori, a disco concluso, rifiutando di ingabbiarsi nella scatola di un concept album. Alex Kapranos scrive di sé stesso, elaborando – forse non del tutto consciamente – le più basilari inquietudini umane che sopraggiungono con la maturità. Ma il disco non riesce – e non vuole – essere mai spaventoso: si prende in giro dissacrando i patemi come si farebbe in una sit-com, senza mai scollarsi di dosso quella piacevole naïveté che li ha sempre contraddistinti.
Il nuovo lavoro della band scozzese si apre appunto con Audacious, un anthem il cui orecchiabilissimo ritornello si presta a essere cantato a squarciagola negli affollati pub di Glasgow e che parla proprio del concetto della paralisi da paura, affrontandola come esperienza umana fondamentale per sentirsi vivi senza lasciarsi sconfiggere dalle angosce. Un’analisi diretta à la JD della serie Scrubs: riprenditi e buttati in quello che vorresti fare, il massimo che può accadere è accorgersi di essersi sbagliati. Interessanti i passaggi di tastiera in piena reminiscenza britpop.
Ecco, la paura, a questo punto, ascoltando Everydaydreamer, è che l’intero disco sia una specie di grande training autogeno involontario di Kapranos nei testi, ma il pezzo funziona: la capacità di creare una struttura melodica familiare ma al tempo stesso mai banale, sulla base di strofe decisamente più malinconiche, è gradevole.
Anche in The Doctor il tradizionale tappetto di tastiere, bassi, lick e batteria martellante non delude e non annoia. Rimango affascinato ancora una volta dal gusto dei Franz Ferdinand per il key change tattico, in un brano che fondamentalmente parla dell’ipocondria, o per lo meno di un parallelismo con la paura di rimanere dipendenti da qualcosa di non esattamente vantaggioso, come l’ospedalizzazione.
Ora diventa necessario parlare di Hooked, la quarta traccia – autoreferenziale ma condivisibile – dalle cui prime frasi del testo viene estratto il titolo The Human Fear, perché è centrale nell’analisi di quale sia il senso dei Franz Ferdinand nel presente, a oltre vent’anni dagli esordi.
Hooked è il banger col synth di derivazione EDM, da ballare nel basement sudato dopo un paio di gin tonic; è il pezzo per darsi la carica guidando tra un luogo e l’altro in città. Il problema non è il dove, ma il quando: in quale anno? Può funzionare adesso come avrebbe funzionato nel 2005?
È probabilmente il brano che meglio rappresenta le intenzioni della band di voler restare fedeli alla propria identità, legandola al timido tentativo di uscire dalla propria comfort zone rendendo la propria evoluzione il più naturale possibile. Kapranos dichiara su Rolling Stone di «non volersi nascondere dietro una patina di modernità posticcia»; ma forse va letto come un rifiuto, come uomo e come artista, all’adeguarsi necessariamente alla contemporaneità.
E ne ha tutto il diritto: a 52 anni e dopo aver raggiunto l’ala dell’eternità con Take Me Out e Do You Want To, immancabili nelle playlist indie rock revival, poteva anche scegliere di accomodarsi al bancone del pub e ordinare uno scotch rassegnandosi a un triste “act your age”.
Il giudizio sull’album a questo punto varia a seconda del bias generazionale: chi già li ha vissuti e li apprezza sarà felicissimo di ascoltarlo, chi li ascolta per la prima volta, magari avendo sentito a posteriori le hit più celebri, potrebbe percepirlo come fuori tempo massimo.
Anche se Build It Up sa di già sentito, si inserisce perfettamente nella loro discografia, specialmente negli stilemi dei primi successi.
Seppure con comprensibilmente minore energia rispetto agli esordi, la sesta traccia, il singolone radiofonico Night Or Day, riesce ad agganciare l’ascoltatore con un ritornello che definire catchy sarebbe un eufemismo. Uno dei punti più alti del disco. La scelta dei singoli è stata sicuramente azzeccata, esclusa qualche sorpresa sono certamente i brani più efficaci.
Tell Me I Should Stay potrebbe sembrare meno a fuoco, ma è un brano intelligente e d’esperienza che riesce a coinvolgere con un crescendo centrale; poi, arrivati a Cats, ci si domanda se siamo entrati in un wormhole collegato a un aperitivo hipster del 2007.
Il punto è che non c’è un pezzo che non funzioni davvero, il disco scorre ed è soddisfacente, pur essendo fortemente ridondante nel contesto della loro discografia. Le atmosfere ci sono e le strutture dei brani anche. Persino nella parentesi di Black Eyelashes, in cui Kapranos palesa il tentativo di ricongiungersi alle proprie origini greche, non riesce a non essere scozzese fino al midollo.
Bar Lonely è un altro brano fortemente britpop con influenze talmente vintage che fa specie ascoltarlo nel 2025, ma è una piacevole sorpresa con un buon tiro e passaggi dinamici, merita l’ascolto tanto quanto la rumorosa The Birds in chiusura.
La chiave di lettura, forse, sta nel fatto che già agli esordi i Franz Ferdinand si presentarono come una band art rock dai costrutti retrò, oltre che nel sound e nelle tematiche, anche nelle scelte estetiche. Gli osservatori dell’epoca prevedevano che potessero evolversi in qualcosa che potesse dettare le regole di un nuovo britpop o in alternativa vederli avventurarsi su una linea indie rock più indipendente e sperimentale. Invece, sono fondamentalmente rimasti sempre loro stessi, percorrendo un sentiero dal sapore volutamente démodé, senza mai lasciarsi influenzare eccessivamente da ciò che gli girava intorno, senza paura dei giudizi negativi.
Il risultato è che non hanno mai fatto un disco brutto, senza tuttavia nemmeno essersi consegnati alla storia come leggende: sono rispettati dalla scena ma non considerati come dei game changer a tutti gli effetti e The Human Fear è il perfetto risultato di questa equazione. Un nuovo disco di cui sarebbe piacevole ascoltare i brani dal vivo con la maturità di chi rispetta il loro percorso, senza nemmeno chiedersi il perché, magari, non abbiano più voglia di suonare le solite hit telefonatissime.
Una band nata nella non-scena di Glasgow che continua, imperterrita e martellante come la loro sezione ritmica, a regalare la propria essenza al pubblico, con ritmiche, voce, melodie à la Franz Ferdinand. Non trovo corretto doverli mettere a confronto con artisti che hanno saputo reinventarsi con costanza ed evolversi in qualcosa di sempre nuovo e interessante. Stanno pagando dazio in termini di ripetitività, è vero, ma in quanti possono vantare un’identità così definita da essere diventati sinonimo di qualcosa, tra appassionati, ascoltatori casuali e musicisti?