Uscito il 24 ottobre 1995 debuttando in cima alla classifica dei 200 di Billboard, Mellon Collie and The Infinite Sadness è l’album più acclamato degli Smashing Pumpkins, con le sue 10 milioni di copie vendute e la certificazione di diamante della Recording Association of America (RIAA). A 30 anni di distanza dalla sua prima edizione, un racconto appassionato
«I like to play that being… in peace». C’è un video in rete che mostra Billy Corgan timido, intento ad accomodarsi davanti al suo piano. Ha un maglioncino blu natalizio con su disegnate alcune renne incastonate in una cornicetta rossa dai motivi natalizi. Le immagini sono riprese a Pumpkiland, lo studio di registrazione di 560 metri quadri di proprietà degli Smashing Pumpkins situato in un quartiere di Chicago famoso per le attività delle gang criminali.
E’ il marzo del 1995. L’emittente MTV vuole catturare per la serie Rockumentary la band intenta nelle registrazioni del nuovo attesissimo album: al Lollapalooza del 1994, gli Smashing Pumpkins hanno suonato come headliner del tour insieme ai Beastie Boys – i Nirvana rifiutarono i 10 milioni di dollari offerti per partecipare e pochi giorni dopo il corpo di Kurt Cobain venne trovato senza vita – in una delle edizioni più fortunate del festival e i media mainstream e la casa discografica sono impazziti per questo.
La versione del video che gira online è un bootleg delle riprese ufficiali e già nel titolo è un programma: 666 Tapes. Nei cinque minuti iniziali, Corgan armeggia con il proprio strumento preferito saltando con le dita da un’armonia all’altra, avanzando, tornando indietro fra le note. A un certo punto, concentrato e con gli occhi ancora posizionati sui tasti bianchi, accenna un piccolo sorriso: come per magia prende forma il pezzo strumentale più famoso degli anni novanta, Mellon Collie and the Inifinite Sadness, che apre l’omonimo album.

Nelle immagini, il frontman degli Smashing Pumpkins con i capelli elfici a coprirgli la testa potrebbe benissimo essere scambiato per il fratello di Super Vicki, come racconta una vecchia leggenda metropolitana molto nota nel nostro paese. Ma da lì a poco la metamorfosi sarà completata. Il novembre del 1995, in piena promozione del disco, Corgan si presenterà al pubblico del Saturday Night Live con un look totalmente stravolto: i capelli rasati a zero, un paio di pantaloni simil pelle color argento e una maglietta a maniche lunghe nera con su scritto a caratteri cubitali ZERO, con il solo vezzo di una stella a coprire lo sterno.
«Non lo so. La vita scorre in cicli di sette anni e la band è al suo settimo anno. Si arriva alla fine di un ciclo e si passa a un altro, quindi c’è una sorta di attrito tra l’abbandono del vecchio e l’ingresso nel nuovo», così rispondeva Corgan a Michael Goldberg (ex colonna della rivista Rolling Stone) in un’intervista per la rivista Addicted to Noise (ATN) dal titolo emblematico The End Of The Smashing Pumpkins As We Know Them. E c’è da crederci davero. «Believe in me, Believe in you, Tonight».
La prima canzone che segue il tema di apertura del disco è una ballata struggente con l’accompagnamento dalla Chicago Symphony Orchestra, il cui video sarà in grado di vincere ben 6 MTV Video Music Awards, nel 1996, ispirandosi a Viaggio nella Luna di Georges Méliès, il primo film muto e di fantascienza ad avere un successo mondiale nel 1902.
Uscire con un doppio CD al costo poco più elevato di uno solo è una mossa di mercato che nessuna band nell’era del CD aveva ancora tentato. Ma le Zucche di Chicago sembrano pronte per il grande salto e per fare le cose in grande: sarà un nuovo White Album o un nuovo The Wall, promettono all’etichetta discografica. L’album è diviso specularmente in due lati da 14 tracce ciascuna, un viaggio che va inizialmente dall’alba al tramonto (Dawn to Dusk) per poi prolungarsi dal crepuscolo alla luce delle stelle (Twilight to Starlight), senza possibilità di ritorno.
Mellon Collie and the Infinite Sadness negli intenti è un concept album, ma a guardar bene lo è più nell’estetica che nella sostanza. E’ capace di evocare più che dichiarare esplicitamente, come dimostra il materiale contenuto nel booklet e l’iconica copertina creata dall’artista e illustratore John Craig, che combina in maniera originale due opere famose come Il Souvenir di Jean Baptiste Greuze e la Santa Caterina d’Alessandria di Raffaello. Insomma, in copertina c’è tutto lo splendore e il decadimento di un secolo, il Novecento, che sta per terminare anche se ancora nessuno ne ha la percezione esatta, nemmeno quella Generazione X che ne consumerà fino all’ultima goccia lo spirito.
«Sono stati essenzialmente quattro mesi di preparazione e quattro mesi di registrazione, più o meno. La band ha inciso più di 57 canzoni, 28 delle quali sono state poi inserite nel doppio album finale, della durata di poco più di due ore», ricorda Corgan ripensando alla gestazione dell’album. La creatività del frontman è un fiume in piena pronto a esondare a ogni traccia. Anche il precedente disco, Siamese Dream, aveva pronto materiale per diventare un doppio album, ma i tempi allora per la band non erano maturi. A inizio 1995 gli Smashing Pumkins hanno finalmente coscienza di quello che rappresentano, della loro forza, e la utilizzano al meglio, insieme agli strumenti messi a disposizione in studio di registrazione: 20 differenti chitarre elettriche tra Strats e Les Pauls, 10 diverse chitarre acustiche e tra i 30 o 40 pedali ed effetti vari tra cui must epocali come Fuzz Tone, Bassballs, Phaser FX20, Rat, Maestro, Phase 100 e Big Muff. Anche se, nei fatti, Corgan ama ripetere che per la maggior parte dei pezzi utilizzò la stessa Fender Stratocaster ’57 reissue e lo stesso pedale Fender Blenderc consigliato da Kevin Shields dei My Bloody Valentine, con il solo supporto di un vecchio preamplificatore Marshall e della testata Mesa/Boogie.

L’effetto tsunami dell’album travolge già nei primi 10 minuti di ascolto a partire da Jellybelly, nel quale è difficile tenere a bada le accelerate sui rullanti di Jimmy Chamberlain. A tentare l’impresa è James Iha, che risponde con i ruggiti dell’accordatura in Drop D e il miagolio degli assoli supersonici. Ma non c’è tregua per l’ascoltatore, la velocità è tale che è impossibile evitare lo scontro con il compatto muro sonoro di Zero. «I’m your lover, i’m your Zero», confessa Billy Corgan con la voce sporcata dalla malizia e dalla sconfitta esistenziale: una lezione che farà sua Chino Moreno pochi anni dopo portandola al successo con i Deftones.
Squadra che vince non si cambia? Gli Smashing Pumpkins decidono che non seguiranno la regola rifiutando di lavorare anche per questo terzo album insieme all’iconico Butch Vig, creatore dei Garbage e produttore di un suono che renderà leggendari album come Siamese Dream e Nevermind. La produzione sarà affidata a un dream team britannico composto da Flood, il cui vero nome è Mark Ellis – produttore fra gli altri di U2, Nine Inch Nails, PJ Harvey, Nick Cave e Depeche Mode – e Alan Moulder, al lavoro con Jesus and Mary Chain e My Bloody Valentine.
Il duo è in grado di segnare il vero cambio di passo per il futuro della band. Flood, ad esempio, lavorerà per tutto il tempo con la ferma volontà di catturare tutto quello che fino a quel momento la band ha saputo fare sul palco, incoraggiando le registrazioni durante le jam, soprattutto nelle parti di batteria che suoneranno insieme al resto degli strumenti e non verranno tagliate e incollate sopra i pezzi. Per ottenere l’effeto live suggerirà a Billy Corgan e gli altri l’utilizzo per la maggior parte delle incisioni dell’attrezzatura tecnica da tour piuttosto che da studio. Il risultato è evidente: sia in una ballata distorta e catchy come Here Is No Why, capace di appiccicarsi alle orecchie, sia nell’incubo vampiresco di Bullet with Butterfly Wings («Nonostante tutta la mia rabbia, sarò sempre un ratto in gabbia»).
Il dolore e la disillusione sono troppo forti per non condividerli con i fan e, anche se To Forgive riesce nell’intento di seppellire l’ascia di guerra per qualche minuto portandosi a spasso la malinconia per la tundra psichedelica, la pista di decollo attende solo un segnale per far partire il Boeing 747 di Fuck You (An Ode to No One) carico nel ventre di riferimenti rock classici – Beatles? Black Sabbath? Led Zeppelin? – ingeriti e poi vomitati dai cinque di Chicago. Il pezzo vola alto sull’assolo di Corgan, che racconta di averlo suonato e risuonato alla ricerca della perfezione fino a farsi sanguinare le dita e scagliare la chitarra con tutta la forza contro l’amplificatore nel piccolo spazio in cui registrava, per ottenere il perfetto finale catastrofico.
Mellon Collie è un album bizzarro e abbondante per il 1995. L’ampio respiro lascia la porta aperta a nuovi elementi artistici, come il glam, l’art rock e l’elettronica, che rischiano di non essere sempre compresi a fondo dal pubblico. Ne è un esempio Love, traccia che lascerà in sospeso più di un discorso da riprendere negli anni successivi. «Con Flood abbiamo fatto cose come campionare bombolette spray e il suono delle forbici che si aprono e si chiudono. Nella canzone Cupid de Locke, tutte le percussioni tranne la batteria sono cose del genere. Ed è stato davvero liberatorio, a livello sonoro», ha ammesso Corgan in un’intervista rilasciata alla rivista americana Guitar World. Dawn to Dusk si chiude sulle note di Take Me Down, scritta e interpretata da James Iha, che fa piangere dolcemente la propria chitarra in una dichiarazione d’amore per il quartetto di Liverpool, l’elemento più forte in comune con il proprio cantante coltivato sin dall’inizio dell’amicizia.

I vasti oceani pinkfloydiani di Porcelina of the Vast Oceans sono stati solcati, i fiumi orchestrali di Galapogos guadati (un canzone sequel di Tonight o Disarm?) e in gola rimane un ultimo canto generazionale levato al cielo con Muzzle: «poiché tutte le cose devono sicuramente finire e i grandi amori un giorno dovranno separarsi, so che sono destinato a questo mondo. La mia vita è stata straordinaria, benedetto e maledetto e vinto. Il tempo guarisce ma sono a pezzi per sempre. Tra l’altro… hai mai sentito le parole che sto cantando in queste canzoni?»
Il lato B di Twilight to Starlight ha nel nome la promessa del chiarore delle stelle, ma per raggiungerlo è necessario «avventurarsi nel luogo dove i ragazzi hanno paura». Where Boys Fear to Tread riprende il discorso lasciato in sospeso con Zero e i Nirvana di Bleach non sono poi così lontani. Soffia un’aria strana, di tragedia. Nulla di buono sotto il cielo e la notte è già calata. «Love is Suicide», si continua a cantare. Il clima distorto è ultra saturato, manca l’aria. «No body (nessun corpo). Nobody (nessuno)», grida Billy fino a sgolarsi dalle casse. In quale incubo siamo ci siamo cacciati?
Neanche il tempo di domandarselo che l’atmosfera si distende nell’ultimo singolo estratto dal doppio album, Thirty-Three, che è anche il primo pezzo rilasciato sul mercato dopo il licenziamento di Jimmy Chamberlin a causa dei recidivi problemi di dipendenza dalla droga e dopo la morte di Jonathan Melvoin, il tastierista di supporto in tour della band.
Nel 1995 il rock alternativo è quasi al culmine della propria golden age. Dagli States è partito come un virus dilagando velocemente per il mondo, riempie le classifiche e vende tantissimo. Quanti sono gli album rimasti nella storia che hanno visto la luce quello questo stesso anno? Moltissimi. (What’s the Story) Morning Glory? degli Oasis, il debutto dei Foo Figthers, Post di Bjork, The Bends dei Radiohead, l’esordio dei Garbage, King for a Day… Fool for a Lifetime dei Fath no More, fra gli altri. Gli Smashing Pumpkins competono in un pantheon colmo di Dei e semidei del nuovo rock. Anche nelle ballate sanno che dovranno fare a gara con band come i Pearl Jam che di un sotto genere come questo ne hanno fatto un marchio di fabbrica in termini di intensità: ecco quindi comparire l’onirica In The Arm of Sleep, che scivola via sulla pelle come pioviggine.
Molto più complesso invece il parto di una canzone come 1979, etichettata da subito come potenziale singolo durante la composizione. Finì per creare non poche tensioni all’interno del gruppo in fase di arrangiamento, tanto da rischiare di rimanere fuori dal disco sotto minaccia del produttore Flood. William Patrick Corgan in una sola notte allucinata ne registrò una versione acustica a poche ore dal mixaggio definitivo a Los Angeles. La nuova interpretazione sostenuta da una drum machine finì per convincere il produttore che diede la spinta finale al pezzo permettendogli di raggiungere a oggi le 500 mila copie vendute.
«Mento solo per essere reale / morirei solo per sentire / perché le stesse vecchie cose continuano a succedere?»
La parola d’ordine di Tales of A Schorched Earth è: fastidio. Sputato dritto in faccia a una velocità supersonica insieme agli effetti di un vecchio space invaders. La via per la redenzione sembra ancora lontana, offuscata; ma è forse attraverso gli occhi di una donna che la vita può assumere un altro colore? Thru the Eyes of Ruby è la traccia con più sfumature del disco. Sia in ambito stilistico: l’apertura è affidata a un pianoforte vagamente burlesque che muta in un arpeggio chitarristico attraverso un tragitto siderale di quasi otto minuti, che si conclude con una coda acustica; sia in ambito tecnico: per il pezzo sono state utilizzate fra le 50 e le 70 parti di chitarra sovraincise. Epica. Tanto che la band è costretta a svestire ogni panno per respirare nella successiva Stumbleine, ridotta all’osso per metabolizzare il meteorite sabbathiano in arrivo di X.Y.U., la cui furia non conosce freni. Ma è l’ultimo pezzo elettrico del disco. La tormenta passata può lasciare spazio al brillare delle stelle e alla leggerezza pop di We Only Come Out at Night (i Beatles di All You Need is Love che incontrano i creatori della colonna sonora di Pacman?), Beautiful e Lily (My One and Only). «By starlight i’ll kiss you / and promise to be your one and only / i’ll make you feel happy», il motivo accompagna la discesa sulla terra di un alieno che si è fatto uomo (qualcuno ha detto Ziggy Stardust?), l’unico in grado di comprendere l’animo di chi scrive «dead eyes, are you just like me?».
Ma è ormai tempo di accomiatarsi, ancora poche parole rimangono. Farewell and Goodnight, scritta a quattro mani da Corgan e da Iha, è la ballata dolce amara di quattro compagni le cui strade un giorno si divideranno per sempre.
«E allora dico: buonanotte, amore mio, a ogni ora di ogni giorno. Buonanotte, per sempre, a tutto ciò che c’è di puro nel tuo cuore»
Il piano riprende a suonare per un attimo il tema di Mellon Collie, per perdersi in un sogno di eternità.

