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Gianluca Petrella incanta il Planetario. Il Jazz è tutt’altro che morto!

La serata di chiusa della settima edizione di Jazz is dead! si è rivelata un viaggio emozionante tra le stelle e nei meandri più profondi dell’animo di chi ha partecipato. D’altronde, gli ingredienti c’erano tutti: Gianluca Petrella, meraviglioso e poliedrico artista, il suo trombone e la spettacolare sala sferica del Planetario Digitale dell’Osservatorio Astrofisico di Torino. Non poteva esserci chiusura migliore per la rassegna diretta da Alessandro “Gambo” Gambarotto


Finalmente il cielo è terso.

Oddio, qualche nuvola c’è, d’ordinanza. Però dopo due mesi di pioggia è oro.

Gianluca ha appena cominciato e sono già tra le stelle. È il Planetario, è tutto normale, non ho patito nemmeno il decollo. Questa sera sarà bellissima. Lo sento.

In volo.

Che meraviglia non pesare un grammo, sto davvero lasciando la Terra? I colori, l’aurora boreale, gli archi, i bassi, il tappeto di uccellini (non sono uccellini, solo somiglianze sintetiche). Esco fuori. Toh, la terra è rotonda, incredibile eh? Ma sto viaggiando talmente veloce che tale considerazione si lascia alle spalle qualsiasi accento sprezzante.

Sei bella, casa!

Transizione.

Scatto nel buio, tra una, due, un milione, un miliardo di stelle. È questa la famosa tendina cantata anni fa da Zucchero? Percussioni che incalzano, rintocchi di sintetizzatore, poi l’incontro: Sole e Luna.

Si guardano, come sempre. Giriamoci attorno: Sole è il tutto, splendente, fonte di vita, sa di essere fondamentale (guai a dirglielo, non lo sarà stasera); Luna appare timida, sulle sue, illuminata a metà, a ricordarci che la felicità è tale perché alle spalle c’è comunque stata l’inquietudine.

Proprio lei, Luna. La sto sorvolando, sono a un palmo. Confermo, un sogno senza vita. Non importa: la vita sono io, la vita sono le mie emozioni.

Proseguiamo.

Grande Giove!

Così avrebbe commentato un celebre esperto di viaggi. Mi perdoni Doc, ma qui siamo oltre il tempo, oltre lo spazio. Il bro direbbe nell’iperuranio. E chi sono io per contraddirlo? Nessuno. A maggior ragione quando Giove si illumina a tempo di trombone, il quale è sincronizzato con degli archi, a sua volta collegato a degli effetti luminosi, che diventano psichedelici per colore, frequenza e trasformazioni elicoidali, roba da chiedere i danni per la cefalea causata al popolo del sold out. Troppe subordinate, non diventeremo mai amici, ma la resa è più che soddisfacente.

Eccolo, Saturno!

Maracas, jambè e congas. Perché il ritmo è importante, perché quando ti ricapita un giro di pista sugli anelli? Che se abbassi un attimo lo sguardo, il focus, il punto di vista, stai scorrazzando in mezzo a un campo di lavanda. Saturno a un certo punto esplode, a tempo, a comando dei colpi di fiato dell’artista, collegati agli archi, collegati alla luce, collegati alle persone.

Col naso all’insù.

Due colpi di trombone ben fatti e siamo di nuovo in volo.

Nello spazio libero. Ormai è chiaro, è una gita nel sistema solare, che significa viaggio al centro del mio Essere (la maiuscola è puro narcisismo). Lo sapevo, non me ne vogliate Urano e Nettuno, ma a un certo punto è arrivata Venere. Enorme nel suo primo piano, nette le sottolineature preliminari di Gianluca. Ancor di più lo stacco.

La musica si ferma, i bassi scioperano per un attimo, tutto si cristallizza. Ho incontrato i tuoi occhi, di nuovo, stasera come la prima volta: come fa a saperlo?

Non lo scoprirò mai, ci penserò nel finale, attratto dal viaggio di ritorno. 

Sono un libro aperto. Pausa.

Si torna spediti attraverso uno spettro di colori, con un sound incalzante. La Via Lattea ha un indubbio fascino, ma mi sono spinto davvero lontano. Voglio rientrare e lo sto facendo, certo non prima di attraversare una cortina di stelle che, potenza del cosmo, disegna una farfalla in Technicolor.

Che via via si affievolisce.

Che via via diventa una macchia di colore.

Che via via scompare.

Che si trasforma in applausi di cinque minuti.

Filati.

Trombone a chi?

Pensare che trombone, anche da definizione Treccani, è comunemente utilizzato, in senso spregiativo, per dare dello smargiasso, dello spaccone, ancor più enfatizzato nell’accezione negativa se gli si fa precedere l’aggettivo vecchio.

Un luogo comune che Gianluca Petrella distrugge e ribalta in pochi secondi di esibizione, armonizzando il maestoso vocione del suo ottone con la modernità degli inserti elettronici della sua consolle e dei suoi sintetizzatori. Un viaggio spettacolare, un’esperienza culturale e mistica al contempo, resa possibile dal meraviglioso Planetario Digitale, la sala sferica presente all’interno dell’Osservatorio Astrofisico di Torino, dove la scienza dà spettacolo.

E di spettacolo si è trattato, con l’artista barese che ha accompagnato le immagini proiettate dall’astrofisico Emanuele Balboni di Infini.To con tutta la sua competenza polistrumentale, adattando a variegati tappeti di archi un vasto campionario di suoni che sembravano pervenire direttamente dalle viscere della Terra. Il tutto impreziosito dagli inserti del suo compagno di viaggio di una vita, il trombone, che in questa circostanza ha indossato un abito gentile e malinconico, in grado di provocare gli scompensi emozionali della tromba di Max Tooney, intento a ritrovare l’amico Novecento ne La leggenda del pianista sull’oceano, magistrale trasposizione cinematografica del monologo teatrale di Alessandro Baricco. D’altronde, il piccolo Petrella ha cominciato a soffiare le prime note in una banda di paese esclusivamente dedicata alle funzioni funebri. Imprinting.

«L’esperienza è stata molto bella, una grande soddisfazione – le emozioni a caldo di Gianluca Petrella, qualche minuto dopo la sua seconda esibizione consecutiva – perché c’è stata tanta preparazione alle spalle, diverse sessioni in studio per selezionare i suoni più adatti per le immagini che sarebbero state proiettate». Non solo improvvisazione, dunque: «Diciamo metà preparazione, metà improvvisazione. Ho seguito l’istinto, mi sono fatto ispirare dalle immagini, per poi dar vita all’idea di base del viaggio che avevo immaginato in fase preparatoria, seguendo alcuni schemi classici consoni del mio modo di lavorare. I cambi di ritmo, i ponti, le transizioni sono state ipotizzate in studio ma hanno preso forma e corpo solamente durante la performance, in seguito a un breve confronto con l’astrofisico addetto alla proiezione». Un’esibizione fortemente voluta dopo il colpo di fulmine di un anno fa: «Sì, lo scorso anno sono stato invitato da Gambo al Planetario per assistere a un’esibizione e sono rimasto molto colpito da quello che ho visto e sentito in quell’occasione, così ci siamo subito messi a lavorare insieme affinché anch’io potessi creare qualcosa di bello in questo luogo speciale».

Il “Gambo” chiamato in causa è Alessandro Gambarotto, direttore artistico di Jazz is dead! e personaggio molto noto nel clubbing torinese. Spetta a lui mettere il punto finale al termine della settima edizione della sua rassegna: «Dopo quest’ultima esibizione mi viene da dire che più di così non potevamo fare, abbiamo toccato un punto molto alto. Certo, siamo pienamente coscienti che possiamo e dobbiamo ancora migliorare ma adesso è il momento in cui bisogna solamente godersi il momento ed essere soddisfatti, perché ci abbiamo messo il cuore, l’anima, tutto». Sold out tutte le sere, organizzazione impeccabile, un pubblico eterogeneo che siete riusciti a soddisfare con una proposta variegata: «È stata un’edizione nuova e particolare, perché rispetto agli altri anni ci siamo ingranditi in maniera esponenziale, grazie anche alle collaborazioni su Milano, con il Torino Jazz Festival e con la predisposizione di un ampio spazio esterno per la tre giorni di concerti che ha fatto sempre il tutto esaurito. È stata davvero una bella avventura che siamo riusciti a portare a termine, tutti, nel migliore dei modi. Ce lo hanno riconosciuto in molti e ne sono davvero orgoglioso».

Adesso possiamo dirlo, il Jazz è tutt’altro che morto: «No, per niente. Il titolo della nostra rassegna è stata una piccola provocazione funzionale a scuotere un po’ di coscienze, cercare di scardinare qualche porta per tentare di creare qualcosa di unico e originale, che prescinda dal genere ma che sappia trarre dal jazz lo spirito ancestrale e la naturale attitudine alla sperimentazione, alla ricerca, alla scoperta costante di qualcosa di nuovo, di gradevole».

Insomma, la qualità è per tutti. Nessuna chiusura e nessuna nicchia: «Assolutamente. Il nostro festival cerca di semplificare il più possibile un messaggio che originariamente sembra indecifrabile, in modo da renderlo accessibile a quante più persone possibile».

 

foto di Luca Morlino 

Attila J.L. Grieco

Giornalista, cantante, esperto di comunicazione. Ma ho anche dei pregi, come essere riuscito a farmi battezzare Attila, nascere nell'anno di uscita dell'omonimo e celeberrimo film e condividere con il suo protagonista capigliatura, giorno del compleanno e squadra del cuore.

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