Con un Alcatraz sold out, si è aperta ieri sera a Milano la tranche italiana del Rock Machine Tour, il nuovo viaggio live di La Femme. La band francese – fondata a Biarritz nel 2010 da Marlon Magnée e Sacha Got – ha presentato il suo quinto album in studio, Rock Machine, uscito l’11 ottobre 2024 per Born Bad Records. Il disco – il primo in lingua in inglese, costruito tra Parigi, Londra, Istanbul e Bucarest – esplora un crossover eclettico tra new wave anni ’80, rock, calypso, surf yé-yé, bagpipe, synth psichedelici e ballad à la Joan Jett
La Femme è un enigma. Una visione cangiante. Un volto di donna dalle pupille vuote e un fiore dagli occhi profondi. Un’entità musicale che si espande e si ritrae, attraversando stili, città, lingue, identità.
Nata nei primi anni 2010 a Biarritz dall’incontro tra il pianista Marlon Magnée e il chitarrista Sacha Got, il progetto ha da subito mescolato la chanson francese all’elettronica, il garage rock al pop sintetico, il gotico al tropicalismo. Nei primi esperimenti casalinghi su GarageBand, tra le onde dell’Atlantico e i rave urbani, emergevano già i tratti distintivi di quella che oggi si può definire un’estetica liquida, surf wave, bizarre wave. In pratica: tutto ciò che finisce in wave e sfugge a ogni restrizione.
Con Rock Machine, quinto album in studio della band pubblicato per Born Bad Records, La Femme adotta una struttura musicale più compatta e diretta, senza rinunciare al suo caos ordinato. L’album omaggia e insieme decostruisce l’immaginario rock: ci sono echi di Bowie e Joan Jett, la new wave francese di Marie & les Garçons, il synth-pop cupo e ballabile già sperimentato in Psycho Tropical Berlin. Il tutto tenuto insieme da quella macchina sonora evocata nel titolo, che accoglie e reinventa ogni influenza. Operazione che diventa evidente nel video di I Believe in Rock and Roll, un condensato visivo del loro universo, che incorpora riferimenti alla scene DIY e rock ‘n roll americane, trasudando fluidità senza costruirla a tavolino.
Come scrive la label Born Bad Records, La Femme è «un’espressione sonora episodica, una pioggia sintetica che cola sul selciato grigio della città, una mano bianca che ti invita nel buio». Un’immagine che restituisce perfettamente il fascino perturbante della band, la natura sfuggente e ambigua di un progetto che vive di contrasti, evocazioni e trasformazioni. Il nome stesso del gruppo richiama l’immaginario della femme fatale, che si riflette nelle voci vellutate delle attuali cantanti, Fanny Luzignant e Michelle Blades.
Arriviamo all’Alcatraz di Milano all’apertura porte: non troviamo coda e, infatti, il locale è ancora vuoto, se non per qualche fan fedele già in posizione alle transenne. L’aria condizionata soffia decisa, come a voler congelare l’attesa prima che il pubblico prenda fuoco. Alle 20 in punto salgono sul palco il cantante americano Josh Landau e la batterista inglese Hattie Steel. Sono in tour con La Femme per presentare il progetto solista di Landau, Stolen Nova, fortemente influenzato da un mix di musica, arte e cultura. Il nome strizza l’occhio sia a Slick Rick sia agli Oasis; la musica attinge al glam, al funk e allo psych-rock dei Tame Impala.
Landau si presenta come un chitarrista dandy: nei suoi abiti si coglie l’influenza della vecchia moda inglese, con un tentativo, accennato, di affrancarsi allo stile di Prince. Steel, con il rossetto rosso fiammante e un vestito bordeaux, richiama invece la giovane Alison Mosshart dei tempi biondi, in chiave Gen Z.
Il concerto procede spedito. Landau è spesso al centro a fronteggiare il pubblico; si diverte a mostrare i suoi virtuosismi – un vago richiamo a John Frusciante – con una bella chitarra elettrica il cui corpo pare forgiato nel vetro o nel cristallo. A volte gira per il palco, passa il microfono a Steel, poi torna nel suo centro di gravità permanente. I suoi assoli aprono rabbit-hole in cui è difficile non scivolare, tant’è che dalle prime file si scorge Magnée, dietro le quinte, che viene a sbirciare. Il live si chiude con una cover di Redbone, il capolavoro di Childish Gambino, che tuttavia non viene citato.
Aspettiamo i La Femme, con l’aria condizionata sempre alta. L’Alcatraz ora è pieno. Alle 21:15, attaccano. Un rombo ruggente di chitarra elettrica squarcia l’attesa e dà il via allo spettacolo. Il pubblico esplode in urla di incoraggiamento.
In sette sul palco, sembrano a loro modo i personaggi di un film. Marlon Magnée è un cowboy contemporaneo: fedora fucsia, jeans neri attillati, camicetta luccicante. Sacha Got, invece, è una presenza monocromatica, interamente vestito di bianco, come uscito da un sogno rétro. Fanny Luzignant si muove leggiadra tra tamburello e synth, con la grazia di una hippie catapultata da Woodstock, mentre Michelle Blades, con un abitino a scacchi che sembra un costume da bambina, rivela a ogni brano una padronanza polistrumentale che smentisce ogni ingenuità. La band suona con una padronanza totale e sul palco i suoi musicisti sono semplicemente magnetici. Tuttavia, come accade ascoltando l’album, alcuni pezzi risultano più ripetitivi, complici i ritmi trascendentali e le linee vocali ovattate.
Ma ecco che arrivano quelle gemme che spiegano perché Rock Machine sia uno degli album più interessanti del 2024, come White Night e Sweet Babe: qui, sono Luzignant e Blades ad assumere il ruolo delle due frontwomen, mentre Magnée segue in back voice. Dal parterre iniziano a partire i primi poghi. In Clover Paradise rientra anche Josh Landau. È un altro gioiello della collana Rock Machine, un brano dalle sfumature synth-pop che richiama le sonorità dei Depeche Mode. Landau non teme di prendere la scena, concludendo il brano schiena contro schiena con Got, chitarre sfoderate.
E poi arriva Venus, una canzone che suona come una coperta calda per cuori infranti. Un blend vivace tra The Velvet Underground e The Mamas and the Papas. È uno di quei pezzi di cui è facile affezionarsi. Da qui in poi, il concerto è un crescendo inarrestabile. Su Sacatela, Magnée prende il sintetizzatore dal piedistallo e lo brandisce come fosse una chitarra. L’ultimo brano in scaletta è il già citato I Believe in Rock and Roll: quale migliore momento per fare stage diving sulla folla danzante.
Applausi, sorrisi, ringraziamenti. Poi le luci si accendono e la rock machine si ferma. Siamo di nuovo fuori dal mondo parallelo che si crea a ogni concerto.
C’è un momento che custodirò più di tutti ed è legato a Venus. Sul finale, mentre risuonano le parole «it was just a dream / it’s gonna be alright», Magnée si sposta proprio davanti a me. Cantiamo insieme, per un attimo gli occhi negli occhi e le braccia spalancate. In quel gesto sembrava che ce lo stessimo promettendo davvero: che tutto andrà bene. Siamo usciti da lì con questo augurio inciso sottopelle.